Febbre da disc jockey
Snobbato dalla critica, il sound che ha fatto nascere le discoteche è un mix di poliritmie africane elettrificate. Da Gaynor ai Bee Gees, i segreti in un libro Hoepli
Ferragosto 2020: la febbre del sabato sera soppiantata dalla pandemia. Il governo chiude le discoteche. Stop ai balli. Locali sbarrati, liti tra imprenditori billionari, opinionisti più o meno onorevoli. Titoli mesti di giornali, in genere contenenti la parola “movida” usata a capocchia. Un panorama di mestizia, che fa venir voglia di fuggire dalla realtà, andare a letto presto, abbandonarsi all’oblio come Robert De Niro con l’oppio in C’era una volta in America. In alternativa chiudersi in casa con un buon libro, che si ripesca anche se uscito alla fine dell’estate scorsa, perché è un libro sulle discoteche, o meglio su quel che in principio le alimentava: La storia della Disco Music, di Andrea Angeli Bufalini e Giovanni Savastano.
C’era una volta la disco, dunque, e secondo una lettura filologica, circa 40 anni fa era al suo apice: facciamo nel 1978 di Saturday Night Fever, il film di per sé abbastanza mesto – è neorealismo brooklyniano – ma di cui ci si ricorda per le danze di John Travolta sulle musiche dei Bee Gees? Ok, ma conviene andare con ordine. Perché al suo apice, come spesso accade, la disco music è già stata colonizzata dall’uomo bianco. Ma in origine è tutt’altro. Come spiega bene questo tomone Hoepli da 500 pagine che conviene leggere su un tablet, tenendo a portata di mano YouTube, un collegamento Wifi e magari una boombox seria per recuperare le mille referenze musicali e magari intervallare la lettura con movenze alla Tony Manero.
Radici afro, black, global. Alla fine degli anni Settanta, quando si fa largo il contagioso ritmo pelvico di Stayin’ Alive dei Bee Gees, la Disco music viene snobbata, e quasi osteggiata: dai critici, dal grande pubblico degli allora maggioritari appassionati di rock, quello con le chitarre e i capelli lunghi, dai Beatles ai Led Zeppelin, dai Rolling Stones ai Pink Floyd. C’è una specie di suprematismo bianco del rock che emerge, in controluce dagli albori della Disco music: la succitata Storia spiega molto bene, e con una dovizia quasi sfinente di riferimenti discografici, come la musica per ballare proveniente dall’Africa, magari a base di poliritmie di stampo tribale poi elettrificate con gli strumenti del mondo occidentale, si diffonda già nei primi anni Settanta tra club cavernosi e quasi clandestini delle città hotspot d’Europa (Londra, Parigi) e d’America (New York, Chicago, L.A.). Da qui esce il primo pezzo di culto per chi vuole reclamare di saperla lunga: Soul Makossa, del grande compositore e sassofonista/vibrafonista camerunense Manu Dibango (classe 1933, se n’è andato a marzo, a Parigi; vittima del Covid). Miscela di cori e ritmiche africane, bassi e chitarre funky, ornamenti di jazz elettrificato, viene scoperto e lanciato (tra radio e feste nei club) da David Mancuso, newyorchese, prototipo della figura di rabdomante musicale che emerge in quegli anni di proliferazione di vinili: il disc jockey.
La vera rivoluzione della disco music è infatti questa: il potere di radunare gente in locali non già intorno a una band che suona dal vivo, ma intorno a una consolle da cui si fanno girare pezzi preregistrati su supporti fonografici, spesso in versioni ampliate ad hoc; i famosi “remix” a 12. Intorno a questo fenomeno si orienta sempre più la produzione, in particolare delle due grandi scuole di soul e rhythm & blues ballabile black: quella di Detroit che fa capo all’etichetta Motown, e quella di Philadelphia. È da questa riserva inesauribile di negritudine, groove e ritmo che escono le superstar della disco, da Gloria Gaynor (la cui Never can say goodbye, del 1974, inaugura, secondo molti, la stagione della vera disco music) passando per Diana Ross (veterana Motown con il soul ballabile delle Supremes, passata con successo ai nuovi ritmi), Donna Summer (musa di Giorgio Moroder, genio altoatesino dell’elettronica e padrino della Italo-disco), Michael Jackson (star Motown fin da bambino con i suoi fratelli Jackson Five, poi tra i trascinatori disco, in abbinata con il produttore Quincy Jones prima di diventare King of Pop anni Ottanta con l’album Thriller).
Su questa materia prima musicale, e crucialmente in tutti quei club riconvertiti in discoteche per tribù che ballano s’innesta tutta una cultura inclusiva e alternativa, minoritaria in quegli anni: black e gay, latino e queer, etnie e diversità ancora osteggiatissime dal mainstream; anche perché inevitabilmente collegate a generosa circolazione, tipicamente seventies, di alcool, cocaina, sesso e volentieri. Quello che rimane, però, è una musica liberata, estatica, piena di influenze afro, latine, cubane, brasiliane, di fiati e percussioni; che però a un certo punto si ricollega con l’approccio industriale, con l’elettronica dei Kraftwerk, con le nascenti macchine per fare musica in automatico (sintetizzatori, sequencer, drum machine) e la via “bianca” allo sfruttamento commerciale. E così si arriva a quel fatidico Night Fever del 1978, e ai Bee Gees, band di britannici cresciuti in australia, già artefici di qualche successo ma quasi dimenticati fino alla svolta disco e al film con John Travolta, e da lì capaci di diventare dominatori di classifiche e vendite. Per poi evaporare con gli anni Ottanta della new wave e della dance sempre più a trazione europea.