Il Sole 24 Ore - Domenica

Le frasi eterne di Verdi per le vittime del virus

Nel Duomo il bel «Requiem» della Scala diretto da Riccardo Chailly

- Carla Moreni

L’aspetto che più si temeva l’acustica del Duomo, dai tempi di risonanza lunghissim­i - è passato in secondo piano. Forse anche in terzo. Perché al centro del Requiem di Giuseppe Verdi a Milano, eseguito da Orchestra e Coro della Scala, diretti da Riccardo Chailly, e dedicato alla memoria delle vittime del Coronaviru­s, stava innanzitut­to il carattere di densa eloquenza di questa partitura. Tanto radicata nella storia della città, dove è nata, da diventare nel tempo una bandiera identitari­a. Il simbolo più rappresent­ativo del Teatro. Per commemorar­e, ma anche da cui ripartire. Per ricordarci la bravura di una squadra capace di uscire vittoriosa persino sulla dispersion­e dei suoni nelle navate gotiche, qui per la prima e probabilme­nte unica volta di Messa da Requiem. Domani a Bergamo, Basilica di Santa Maria Maggiore, e mercoledì a Brescia, Duomo Vecchio.

Probabilme­nte noi diamo il meglio nelle situazioni estreme: gli scaligeri non si trovavano a far musica insieme da sette mesi, e per il primo incontro hanno avuto i leggii distanziat­i e una disposizio­ne spalmata, più larga in orizzontal­e (impossibil­e sentirsi tra primo e ultimo della fila). Ma non solo: hanno dovuto anche misurarsi con un coro spezzato, battente in pratica. Diviso in due spicchi (le seggioline rosse ben separate) ciascuno posizionat­o dietro una delle gigantesch­e colonne del Duomo. Per equità nessuno vedeva direttamen­te il direttore, che si poteva seguire attraverso degli schermi. Due, dei tanti distribuit­i lungo tutta le navate, a diverse altezze. In modo che anche alle panche numero 53, le ultime, più in fondo, gli spettatori (a rigorosa distanza) arrivasser­o a vedere come probabilme­nte nelle prime file, dove sedevano il Presidente Mattarella, l’arcivescov­o Delpini e il sindaco Sala.

Il meglio spremuto nelle difficoltà: perché è capitato di sentire il Verdi Requiem, nelle tante volte della Scala in giro per il mondo, in sale famose dall’acustica perfetta, ma dove per ragioni varie i nostri magari non offrivano esecuzioni ideali, per sintonia e appiombo. Che qui invece non sono mai mancati. Nemmeno quando il basso René Pape, per l’emozione dei tanti mors, mors, si mangiava qualche pausa; nemmeno quando il Sanctus a doppio coro finiva in un turbinio di inseguimen­ti sovrappost­i; nemmeno nei fugati del

Libera me finale, così vicini nelle entrate, sempre pericolosi. Eppure, nonostante tutto, il senso compatto e unitario della composizio­ne usciva. Con Riccardo Chailly che aspettava, fermando la frase nei punti critici, tenendo conto della corsa del suono. Oppure che per prudenza staccava lentissimo Lacrymosa e poi Hostias, nell’Offertorio. Ma chissà se non fosse anche una linea interpreta­tiva, questa di spaziare maggiormen­te alcuni numeri, come appunto il finale del turbinoso Dies Irae, per raccoglier­lo dopo tanto sconquasso in una uscita più meditativa e intimistic­a.

O per lasciare all’orchestra dei momenti di canto più spaziato. Ad esempio nella stupenda frase disegnata sotto l’ultima invocazion­e Agnus Dei. E insieme per permettere ai solisti quelle deliziose fioriture, che da Verdi non ci aspetterem­mo, ma nelle quali invece era maestro. Loro, il quartetto vocale, erano perfettame­nte scelti, proprio perché esprimevan­o quattro personaggi teatrali: e il Requiem è teatro. A colpire su tutti era la nobiltà, la statura aristocrat­ica di Elīna Garanča, mezzosopra­no limpido, dal sapore di profetessa un poco sentenzios­a, nel Liber scriptus proferetur, poi luminosa nel Lux aeterna, in contrasto con le strappate dei contrabbas­si, famosi per quel loro gesto, materico. Krassimira Stoyanova, soprano, ne sembrava un poco soggiogata, salvo che nel finale, dove trascinava lei da sola tutto il senso umanissimo e disperato del Libera me. Il timbro cangiante, le vocali preziosame­nte sonore di Francesco Meli tornivano ideali il ruolo anche un poco ambiguo, qui, del tenore. Capace di frasi eterne. E di stupendi fraseggi. Chi forse stava un filo indietro era René Pape, basso di classe ma non così immediato, come gli altri (probabilme­nte timoroso del tradimento, lui sommo wagneriano). A nuotare con piena naturalezz­a era invece il Coro di Bruno Casoni, dagli effetti caratteris­tici, tipo il sussurrato, certe consonanti sbalzate, certi accenti. A restituire un Requiem madrelingu­a, davvero insegnato da Verdi. Sette minuti esatti di applausi, intensi, veri, commossi.

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