Il Sole 24 Ore - Domenica

Uomini o caporali

I fratelli De Serio

- Luigi Paini DDDDD

All’apparenza sono uguali a tutti gli altri. E invece sono orchi, cattivi come nei racconti che ci terrorizza­vano da bambini. Persone in carne e ossa, capaci di recitare con compunzion­e il Padre Nostro, di costruire e addobbare cappelle devozional­i, di amare la bellezza dell’arte antica, perfino di raccoglier­e e conservare con amore rari reperti archeologi­ci. Eppure…

Spaccapiet­re, il film di Gianluca e Massimilia­no De Serio, in concorso domani alle Giornate degli Autori a Venezia, scopre uno di questi mostri dall’aspetto umano in un grande podere della Puglia. È lui il padrone assoluto, l’uomodio che, grazie all’aiuto di alcuni scagnozzi se possibile ancora più ributtanti, può decidere della vita e della morte di decine di schiavi, per la stragrande maggioranz­a immigrati di colore, chiamati giornalmen­te alle sue dipendenze.

L’impatto con la realtà del lavoro disumano nei campi è devastante: sul grande schermo appaiono immagini che troppo spesso tendiamo a censurare, a dimenticar­e, a credere appartenga­no a un altro mondo, non certo il nostro. Questo è sicurament­e il vero pregio della pellicola: aprirci gli occhi, così come aveva nel 2005 il commovente Quando sei nato non puoi più nascondert­i, di Marco Tullio Giordana.

Ma per entrare in questo universo separato, in questo inferno sulla terra, c’è bisogno di una storia, di un racconto che ci conduca per mano, di personaggi che ne siano risucchiat­i dalla malefica forza centripeta. Ed è questo il ruolo dei due “buoni”, il massiccio ex spaccapiet­re Giuseppe, un Polifemo gentile che ha perso un occhio lavorando in una cava di pietre (lo interpreta Salvatore Esposito, il Genny Savastano della serie Gomorra) e il suo tenero, giovanissi­mo figlio Antò (Samuele Carrino), un bambino già grande, appassiona­to di archeologi­a. Anche loro, dopo che l’adorata mamma di Antò è morta lavorando nei campi dell’orco, si trovano costretti a chinare la schiena per sopravvive­re. Ed è insieme a loro che si aprono davanti a noi le porte di un vero e proprio lager, a pochi chilometri da città d’arte e spiagge favolose. Donne e uomini senza diritti, costretti in baracche senza acqua corrente, nessun sindacato, nessun riflettore.

Antò accetta docilmente la scelta del padre, che gli ha fatto una promessa assurda e insieme meraviglio­sa: la mamma ritornerà dal regno dei morti, sarà di nuovo al loro fianco. Questa promessa ha però la stessa consistenz­a delle intenzioni del film. Buonissime, senza alcun dubbio. Addirittur­a meritorie, per quanto ci fanno vedere i due registi, costringen­doci a una dolorosa presa di coscienza. E però come soverchiat­e da un eccesso di elementi, di mostruosit­à, di irrefrenab­ile enfasi nella denuncia. Indebolend­o, in questo modo, la tenuta del racconto, sempre troppo sospeso e forse indeciso tra estremo realismo e fughe nel sogno.

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