Uomini o caporali
I fratelli De Serio
All’apparenza sono uguali a tutti gli altri. E invece sono orchi, cattivi come nei racconti che ci terrorizzavano da bambini. Persone in carne e ossa, capaci di recitare con compunzione il Padre Nostro, di costruire e addobbare cappelle devozionali, di amare la bellezza dell’arte antica, perfino di raccogliere e conservare con amore rari reperti archeologici. Eppure…
Spaccapietre, il film di Gianluca e Massimiliano De Serio, in concorso domani alle Giornate degli Autori a Venezia, scopre uno di questi mostri dall’aspetto umano in un grande podere della Puglia. È lui il padrone assoluto, l’uomodio che, grazie all’aiuto di alcuni scagnozzi se possibile ancora più ributtanti, può decidere della vita e della morte di decine di schiavi, per la stragrande maggioranza immigrati di colore, chiamati giornalmente alle sue dipendenze.
L’impatto con la realtà del lavoro disumano nei campi è devastante: sul grande schermo appaiono immagini che troppo spesso tendiamo a censurare, a dimenticare, a credere appartengano a un altro mondo, non certo il nostro. Questo è sicuramente il vero pregio della pellicola: aprirci gli occhi, così come aveva nel 2005 il commovente Quando sei nato non puoi più nasconderti, di Marco Tullio Giordana.
Ma per entrare in questo universo separato, in questo inferno sulla terra, c’è bisogno di una storia, di un racconto che ci conduca per mano, di personaggi che ne siano risucchiati dalla malefica forza centripeta. Ed è questo il ruolo dei due “buoni”, il massiccio ex spaccapietre Giuseppe, un Polifemo gentile che ha perso un occhio lavorando in una cava di pietre (lo interpreta Salvatore Esposito, il Genny Savastano della serie Gomorra) e il suo tenero, giovanissimo figlio Antò (Samuele Carrino), un bambino già grande, appassionato di archeologia. Anche loro, dopo che l’adorata mamma di Antò è morta lavorando nei campi dell’orco, si trovano costretti a chinare la schiena per sopravvivere. Ed è insieme a loro che si aprono davanti a noi le porte di un vero e proprio lager, a pochi chilometri da città d’arte e spiagge favolose. Donne e uomini senza diritti, costretti in baracche senza acqua corrente, nessun sindacato, nessun riflettore.
Antò accetta docilmente la scelta del padre, che gli ha fatto una promessa assurda e insieme meravigliosa: la mamma ritornerà dal regno dei morti, sarà di nuovo al loro fianco. Questa promessa ha però la stessa consistenza delle intenzioni del film. Buonissime, senza alcun dubbio. Addirittura meritorie, per quanto ci fanno vedere i due registi, costringendoci a una dolorosa presa di coscienza. E però come soverchiate da un eccesso di elementi, di mostruosità, di irrefrenabile enfasi nella denuncia. Indebolendo, in questo modo, la tenuta del racconto, sempre troppo sospeso e forse indeciso tra estremo realismo e fughe nel sogno.