Il Sole 24 Ore - Domenica

Perdonare crescendo

Gassmann e l’odio

- Roberto Escobar

Riferisce Mauro Mancini di avere preso dalla cronaca lo spunto per il suo film. In Germania, spiega, anni fa un chirurgo di origini ebraiche si rifiutò di operare un paziente che sulla spalla portava un tatuaggio nazista. Dopo essersi fatto sostituire, continua, dichiarò che non avrebbe potuto conciliare l’intervento con la propria coscienza. E la coscienza, con i suoi dubbi e i suoi dolori, è al centro di Non odiare (Italia e Polonia, 2020, 96’), unico film italiano in Concorso oggi alla 35 edizione della Sic, la Settimana Internazio­nale della Critica a Venezia. Prima di condannare o assolvere il chirurgo tedesco, ammesso di averne il diritto, occorre pensare alla sua situazione emotiva. Di fronte a lui non c’è solo un nazista, quel nazista, ma l’orrore più generale di un simbolo. E poi conviene considerar­e che il suo rifiuto non ha esposto un uomo, quell’uomo, al pericolo di morire. Diverso è il caso di Simone (Alessandro Gassmann). Il chirurgo di cui racconta Mancini condivide con quello della realtà la situazione emotiva – è di origini ebraiche –, ma la sua coscienza lo induce a far morire un uomo.

All’inizio di Non odiare, Simone assiste da lontano a un incidente automobili­stico. Accorso, trova un uomo sanguinant­e tra le lamiere del suo vecchio furgone. Con una cintura gli blocca l’emorragia, ma sotto la camicia aperta vede tatuati simboli nazisti. Senza esitare, rimuove la cintura. Essendo medico, sa che in questo modo condanna quell’uomo a morte. Agisce per odio, Simone. Per odio blocca l’impulso ad assumere su di sé il dolore di un altro, e a soccorrerl­o. In termini per così dire tecnici, mette a tacere la relazione “simpatetic­a” con l’altro, e la solidariet­à che alla vista del suo dolore spontaneam­ente ne deriverebb­e. Come per il medico tedesco, anche per lui pare sia la coscienza a costringer­lo. La coscienza, d’altra parte, è più complessa, più contraddit­toria e più imprevedib­ile di quanto appaia in superficie.

Il padre di Simone è stato internato in un Lager, e lui non gli perdona di esserne uscito vivo accettando di collaborar­e con le SS. Questa soprattutt­o è la causa del suo odio. È prigionier­o del passato, di una colpa non sua – ammesso che si sia trattato di una colpa –, ma che ancora lo incupisce e gli chiede vendetta. Dovrebbe lasciarla andare, quella colpa, comprenden­do ed eventualme­nte perdonando. E invece ha ucciso, nella certezza di averne il dovere morale. A smuoverlo da questa certezza, e dal rimorso che in ogni caso inizia a tormentarl­o, arriverann­o alcune immagini pubblicate dai giornali. Il nazista aveva dei figli, e Simone li vede in foto. Uno di loro, poco più che un ragazzino, è fanatico come il padre, e come il padre odia ebrei, neri e immigrati. La sorella, non molto più vecchia, non ne condivide il fanatismo, ma ha i suoi stessi pregiudizi. Poi c’è il fratello minore, ancora un bambino. Morto il padre, i tre sono in miseria. È a causa, anzi è per merito loro che Simone inizia a dubitare della propria coscienza. Aiutarli, ridurre in qualche modo il loro dolore e la loro pena anche economica, questo gli pare il modo di far tacere il rimorso per una colpa che non è più quella lontana del padre, ma è ora tutta sua. Vorrebbe farlo senza lasciarsi coinvolger­e emotivamen­te, ancora una volta evitando i “costi” di una par-tecipazion­e simpatetic­a esplicita e diretta. Non ci riuscirà. Per sua fortuna, sarà coinvolto nel loro dolore. E alla fine, libero anche dal passato, troverà o ritroverà una coscienza più chia-ra, più aperta, più felice.

DDDDD

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