Grandi reportage da California & dintorni
I reportage di Michele Masneri dagli Usa spiccano per originalità e qualità di scrittura; il tono è da «sadcom» americana, euforico in superficie, ma con un fondo di preoccupazione e amarezza
Ogni tot anni l’Italia manda uno scrittore-giornalista come suo emissario negli Stati Uniti. L’emissario va, vive, prende appunti, manda articoli a un giornale, torna, a volte scrive il libro che, se il libro va bene, contribuisce a fissare l’immagine di quel grande Paese per una generazione di connazionali. Steve Jobs non abita più qui di Michele Masneri, uscito adesso da Adelphi, occupa un posto in questa nobile tradizione, accanto a libri come America primo amore di Soldati o America amore di Arbasino o il postumo Un ottimista in America di Calvino, e diamo subito il voto, per il lettore che non ha pazienza - per intelligenza, originalità e qualità di scrittura regge perfettamente il confronto con quei modelli.
Chi legge «Il Foglio» aveva seguito le corrispondenze di Masneri dalla California, ormai tre anni fa. Una o due volte la settimana arrivavano questi articoloni sulla Silicon Valley, là dove la Tecnica e i suoi famuli modellano il futuro del pianeta. Chi non conosceva Masneri poteva aspettarsi una serie di puntate a tema per nerd, una di quelle cose illeggibili da supplemento «Economia e finanza», con i grafici e tutto. Chi conosceva Masneri si aspettava quello che ha avuto: dei fluviali resoconti “dal vero”, con cose viste e ascoltate in loco, non rastrellate da internet, e confezionate con un’ironia e un umorismo rarissimi negli elzeviristi italiani, compresi i reporter-scrittori succitati, ma perché rarissimi tra gli italiani in generale, che nascono e vivono sciaguratamente convinti che l’intelligenza sia un attributo della solennità, e viceversa (la grana dell’ironia di Arbasino è tutta diversa, è quella di chi ne sa sempre una più degli altri, mentre l’ironia di Masneri è quasi sempre stupefazione, imbarazzo, quindi anche autoironia).
Masneri è del 1974, ha più anni di quelli che avevano Arbasino e Calvino quando fecero il loro Grand Tour americano, molti di più di quelli che aveva Soldati. Allora si faceva tutto prima. Ma questa maturità gli ispira, appunto, autoironia circa il proprio spaesamento, il proprio arrivare fuori tempo, e da un Paese ormai irredimibile («Non ho più l’età, era ovvio, per questo Erasmus da quarantenne - eppure l’idea era semplice, lasciare per un anno Roma e l’Italia decotta, le buche e la depressione economica e morale, e venire nel posto in cui sono tutti giovani, e felici, e progettano il futuro»); e gli ispira anche quella virtù adulta che è l’uso del mondo, cioè la saggezza: per quanto bizzarri siano gli oggetti su cui posa il suo sguardo, nelle 250 pagine di questo libro Masneri ha sempre l’approccio dell’etnografo, mai quello del moralista. Tutto quello che esiste merita di essere compreso e, se una data forma di vita si è venuta a determinare nel tempo, allora non resta che darne la descrizione più precisa e spregiudicata possibile.
Ora, la forma di vita della California settentrionale alla fine degli anni Dieci è anche più strana di quella che si erano trovati di fronte gli illustri precursori di Masneri, stanziati preferibilmente sulla costa orientale, perché è terribilmente non-europea. Le distanze, si sa, sono enormi, perciò senza macchina si è morti, tutto costa tantissimo quindi avere una stanza tutta per sé è già un mezzo miraggio, figuriamoci una casa; niente fabbriche che producono cose, è tutto terziario o servizi, cioè bar con caffè a prezzi da rapina, catene di alimentari bio, marijuana, palestre, sesso e app per il sesso; tutto ciò che non è dinamico e produttivo, come i bambini e gli anziani, viene espulso dalla città; ogni contatto umano è mediato, cioè facilitato ma anche normato, da internet; l’amichevole Grande Fratello che è il welfare statale si è ritirato, o non è mai esistito, e la vita quotidiana è amministrata da Moloch inquietanti e ridicoli come Google, Uber, Facebook, Airbnb.
L’intelligenza di Masneri sta nel vedere tutte queste cose, nel capire su che cosa è interessante fermare l’attenzione e su che cosa no, chi frequentare e chi no. Soldati si mischiava al popolo, e a rileggerlo ora America primo amore sembra un precorritore del neorealismo (o forse è solo che erano tutti più poveri); Arbasino parlava con i professori di Harvard e con i vip e con tutti i più grandi artisti del secolo americano, e leggendolo si ha sempre l’impressione di aver perso tempo, nella vita, o che i suoi mesi durassero come gli anni delle persone normali. Masneri è più eclettico e superficiale, se trova una porta aperta ci entra perché gli interessa tutto, e da tutti impara. Una volta messe a fuoco le cose, la sua bravura di scrittore sta nel trovare il tono e le parole giuste per descriverle.
Il tono assomiglia a quello di certe ottime sadcom americane, quelle serie televisive in cui si ride di cose di cui nella vita reale nessuno riderebbe: euforico in superficie, ma con un fondo di preoccupazione e amarezza, legate un po’ ai quarant’anni suonati dello scrivente (se si è sereni a quell’età si è degli imbecilli), un po’ al fatto che in California sembra che tutti siano sempre sotto esame (l’autista di Uber dà il voto al cliente, il cliente dà il voto all’autista di Uber, e così ovunque), un po’ all’aria di débauche, di dolce dissoluzione fitzgeraldiana che aleggia su un po’ tutto quanto (ultime righe del libro, Palm Springs: «Al ritorno in hotel, le piscine sono vuote. La nebbia artificiale è ancora spessa. Una palla galleggia sull’acqua della piscina. A terra, uno slippino dorato che brilla»).
Quanto alle parole, mi pare che pochi, in questo genere di scrittura, sappiano sceglierle e assortirle meglio di Masneri. Si sorride, si ride addirittura; ma si apprezza anche la concisione della messa a fuoco, che spesso corregge e limita un’innata, a volte estenuante tendenza all’effusione («Tutti sgommano ancora molto. Del mare, come spesso in California, una concezione residuale»). Su un tutt’altro registro si ammirano le similitudini («Sincero stupore davanti alla richiesta di monogamia, come se si proponesse un fax o una polka»), ma più di tutto quella competenza per niente scontata che consiste nel saper dare un nome alle cose, in particolare alle cose moderne - così come Pascoli non chiamava “uccello” l’assiuolo e “pianta” l’acanto, Masneri si aggira con disinvoltura in mezzo ai marchi di moda, ai nomi dei farmaci, alle varietà infinite dei frappuccini, del mobilio: «Colonnine, capitelli, metacrilato, radica, tubi di acciaio inox, librerie come sfingi o robot cubisti, insomma il repertorio pazzerello che scrisse una dichiarazione di guerra al funzionalismo italiano con un Uniposca. Però fa specie vederlo in California. Anche un paddock per una grande collezione d’auto, e uno studio cupola a capanno Quonset alto sei metri» un po’ troppo? Sì, alle volte anche un po’ troppo.
Dato che i capitoli in origine erano articoli per un giornale, e dato che la California è grande e varia, le descrizioni di ambienti sono la norma, mentre le descrizioni dei caratteri sono l’eccezione. È un peccato, sia perché sarebbe stato interessante capire come gli esseri umani incrociati da Masneri reagiscono al bizzarro esperimento di ipermodernità al quale sono sottoposti (come reagiscono, voglio dire, dentro, nella psiche non nell’habitus) sia perché le interviste-ritratti - Jonathan Franzen, Bret Ellis, David Kelley, Don Bachardy - sono piuttosto riuscite, e se ne vorrebbero di più. Anche il carattere-Masneri lo intravediamo soltanto, mentre osserva gli altri tra lo sconsolato e il divertito, e anche di lui avremmo voluto sapere dell’altro: la discrezione del reporter blasé si sconta con una certa freddezza. Manca un po’ «la vita emotiva dei personaggi», anche quella del personaggio che dice io, che Wolfe metteva tra gli ingredienti-base del New Journalism; manca questo, ma quello che c’è è molto, e di una qualità (visione, scrittura, umorismo) che, quanto al genere del reportage, mi pare abbia pochi o nessun paragone tra gli scrittori italiani di oggi.