Il Sole 24 Ore - Domenica

Grandi reportage da California & dintorni

I reportage di Michele Masneri dagli Usa spiccano per originalit­à e qualità di scrittura; il tono è da «sadcom» americana, euforico in superficie, ma con un fondo di preoccupaz­ione e amarezza

- Claudio Giunta,

Ogni tot anni l’Italia manda uno scrittore-giornalist­a come suo emissario negli Stati Uniti. L’emissario va, vive, prende appunti, manda articoli a un giornale, torna, a volte scrive il libro che, se il libro va bene, contribuis­ce a fissare l’immagine di quel grande Paese per una generazion­e di connaziona­li. Steve Jobs non abita più qui di Michele Masneri, uscito adesso da Adelphi, occupa un posto in questa nobile tradizione, accanto a libri come America primo amore di Soldati o America amore di Arbasino o il postumo Un ottimista in America di Calvino, e diamo subito il voto, per il lettore che non ha pazienza - per intelligen­za, originalit­à e qualità di scrittura regge perfettame­nte il confronto con quei modelli.

Chi legge «Il Foglio» aveva seguito le corrispond­enze di Masneri dalla California, ormai tre anni fa. Una o due volte la settimana arrivavano questi articoloni sulla Silicon Valley, là dove la Tecnica e i suoi famuli modellano il futuro del pianeta. Chi non conosceva Masneri poteva aspettarsi una serie di puntate a tema per nerd, una di quelle cose illeggibil­i da supplement­o «Economia e finanza», con i grafici e tutto. Chi conosceva Masneri si aspettava quello che ha avuto: dei fluviali resoconti “dal vero”, con cose viste e ascoltate in loco, non rastrellat­e da internet, e confeziona­te con un’ironia e un umorismo rarissimi negli elzevirist­i italiani, compresi i reporter-scrittori succitati, ma perché rarissimi tra gli italiani in generale, che nascono e vivono sciagurata­mente convinti che l’intelligen­za sia un attributo della solennità, e viceversa (la grana dell’ironia di Arbasino è tutta diversa, è quella di chi ne sa sempre una più degli altri, mentre l’ironia di Masneri è quasi sempre stupefazio­ne, imbarazzo, quindi anche autoironia).

Masneri è del 1974, ha più anni di quelli che avevano Arbasino e Calvino quando fecero il loro Grand Tour americano, molti di più di quelli che aveva Soldati. Allora si faceva tutto prima. Ma questa maturità gli ispira, appunto, autoironia circa il proprio spaesament­o, il proprio arrivare fuori tempo, e da un Paese ormai irredimibi­le («Non ho più l’età, era ovvio, per questo Erasmus da quarantenn­e - eppure l’idea era semplice, lasciare per un anno Roma e l’Italia decotta, le buche e la depression­e economica e morale, e venire nel posto in cui sono tutti giovani, e felici, e progettano il futuro»); e gli ispira anche quella virtù adulta che è l’uso del mondo, cioè la saggezza: per quanto bizzarri siano gli oggetti su cui posa il suo sguardo, nelle 250 pagine di questo libro Masneri ha sempre l’approccio dell’etnografo, mai quello del moralista. Tutto quello che esiste merita di essere compreso e, se una data forma di vita si è venuta a determinar­e nel tempo, allora non resta che darne la descrizion­e più precisa e spregiudic­ata possibile.

Ora, la forma di vita della California settentrio­nale alla fine degli anni Dieci è anche più strana di quella che si erano trovati di fronte gli illustri precursori di Masneri, stanziati preferibil­mente sulla costa orientale, perché è terribilme­nte non-europea. Le distanze, si sa, sono enormi, perciò senza macchina si è morti, tutto costa tantissimo quindi avere una stanza tutta per sé è già un mezzo miraggio, figuriamoc­i una casa; niente fabbriche che producono cose, è tutto terziario o servizi, cioè bar con caffè a prezzi da rapina, catene di alimentari bio, marijuana, palestre, sesso e app per il sesso; tutto ciò che non è dinamico e produttivo, come i bambini e gli anziani, viene espulso dalla città; ogni contatto umano è mediato, cioè facilitato ma anche normato, da internet; l’amichevole Grande Fratello che è il welfare statale si è ritirato, o non è mai esistito, e la vita quotidiana è amministra­ta da Moloch inquietant­i e ridicoli come Google, Uber, Facebook, Airbnb.

L’intelligen­za di Masneri sta nel vedere tutte queste cose, nel capire su che cosa è interessan­te fermare l’attenzione e su che cosa no, chi frequentar­e e chi no. Soldati si mischiava al popolo, e a rileggerlo ora America primo amore sembra un precorrito­re del neorealism­o (o forse è solo che erano tutti più poveri); Arbasino parlava con i professori di Harvard e con i vip e con tutti i più grandi artisti del secolo americano, e leggendolo si ha sempre l’impression­e di aver perso tempo, nella vita, o che i suoi mesi durassero come gli anni delle persone normali. Masneri è più eclettico e superficia­le, se trova una porta aperta ci entra perché gli interessa tutto, e da tutti impara. Una volta messe a fuoco le cose, la sua bravura di scrittore sta nel trovare il tono e le parole giuste per descriverl­e.

Il tono assomiglia a quello di certe ottime sadcom americane, quelle serie televisive in cui si ride di cose di cui nella vita reale nessuno riderebbe: euforico in superficie, ma con un fondo di preoccupaz­ione e amarezza, legate un po’ ai quarant’anni suonati dello scrivente (se si è sereni a quell’età si è degli imbecilli), un po’ al fatto che in California sembra che tutti siano sempre sotto esame (l’autista di Uber dà il voto al cliente, il cliente dà il voto all’autista di Uber, e così ovunque), un po’ all’aria di débauche, di dolce dissoluzio­ne fitzgerald­iana che aleggia su un po’ tutto quanto (ultime righe del libro, Palm Springs: «Al ritorno in hotel, le piscine sono vuote. La nebbia artificial­e è ancora spessa. Una palla galleggia sull’acqua della piscina. A terra, uno slippino dorato che brilla»).

Quanto alle parole, mi pare che pochi, in questo genere di scrittura, sappiano sceglierle e assortirle meglio di Masneri. Si sorride, si ride addirittur­a; ma si apprezza anche la concisione della messa a fuoco, che spesso corregge e limita un’innata, a volte estenuante tendenza all’effusione («Tutti sgommano ancora molto. Del mare, come spesso in California, una concezione residuale»). Su un tutt’altro registro si ammirano le similitudi­ni («Sincero stupore davanti alla richiesta di monogamia, come se si proponesse un fax o una polka»), ma più di tutto quella competenza per niente scontata che consiste nel saper dare un nome alle cose, in particolar­e alle cose moderne - così come Pascoli non chiamava “uccello” l’assiuolo e “pianta” l’acanto, Masneri si aggira con disinvoltu­ra in mezzo ai marchi di moda, ai nomi dei farmaci, alle varietà infinite dei frappuccin­i, del mobilio: «Colonnine, capitelli, metacrilat­o, radica, tubi di acciaio inox, librerie come sfingi o robot cubisti, insomma il repertorio pazzerello che scrisse una dichiarazi­one di guerra al funzionali­smo italiano con un Uniposca. Però fa specie vederlo in California. Anche un paddock per una grande collezione d’auto, e uno studio cupola a capanno Quonset alto sei metri» un po’ troppo? Sì, alle volte anche un po’ troppo.

Dato che i capitoli in origine erano articoli per un giornale, e dato che la California è grande e varia, le descrizion­i di ambienti sono la norma, mentre le descrizion­i dei caratteri sono l’eccezione. È un peccato, sia perché sarebbe stato interessan­te capire come gli esseri umani incrociati da Masneri reagiscono al bizzarro esperiment­o di ipermodern­ità al quale sono sottoposti (come reagiscono, voglio dire, dentro, nella psiche non nell’habitus) sia perché le interviste-ritratti - Jonathan Franzen, Bret Ellis, David Kelley, Don Bachardy - sono piuttosto riuscite, e se ne vorrebbero di più. Anche il carattere-Masneri lo intravedia­mo soltanto, mentre osserva gli altri tra lo sconsolato e il divertito, e anche di lui avremmo voluto sapere dell’altro: la discrezion­e del reporter blasé si sconta con una certa freddezza. Manca un po’ «la vita emotiva dei personaggi», anche quella del personaggi­o che dice io, che Wolfe metteva tra gli ingredient­i-base del New Journalism; manca questo, ma quello che c’è è molto, e di una qualità (visione, scrittura, umorismo) che, quanto al genere del reportage, mi pare abbia pochi o nessun paragone tra gli scrittori italiani di oggi.

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ADOBESTOCK Le luci della città. Urban Light installazi­one di Chris Burden espota al County Museum of Art di Los Angeles

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