Il Sole 24 Ore - Domenica

Kavafis, far poesia con il tempo

Non scrisse di eternità o metafisica ma fu il poeta della cronologia. La sua è stata una delle più originali rappresent­azioni delle stagioni umane della letteratur­a

- Nicola Gardini,

Costantino Kavafis ci ha lasciato una delle più originali e commoventi rappresent­azioni del tempo umano che sia dato trovare nella storia della letteratur­a. Quando diciamo tempo, pensiamo subito all’autobiogra­fia di sant’Agostino o al romanzo di Proust, che di Kavafis è contempora­neo. Quando diciamo tempo, dovremmo pensare subito anche alle poesie di Kavafis.

In queste il tempo sta nell’emblematic­a sineddoche della vita individual­e, o meglio della giovinezza. Non vi troveremo eternità, metafisica, Dio. Né vi troveremo, come nella prosa di Proust, una filosofia della realtà e della verità. Così pensa Kavafis riguardo al tempo: prendi quel momento, quell’attimo sommo e mettilo al sicuro, prima che si dissolva. Lui è il poeta della cronologia. Basta scorrere certi titoli per accorgerse­ne: Nel 31 a. C. ad Alessandri­a; Per Ammone, morto a 29 anni, nel 610; Giorni del 1903; Giorni del 1896; Giorni del 1901; In una grande colonia greca, 200 a. C.; Giorni del 1909, ’10 e ’11; Malinconia del poeta Iasone, figlio di Cleandro, a Commagene, 595 d. C. etc.

I modi retorici sono molteplici: la confession­e, il monologo drammatico, l’epigramma funerario, lo schizzo biografico, il raccontino. Kavafis è lirico che non liricheggi­a. Lo si è chiamato, detrattiva­mente, prosastico. Invece è solo nemico dell’oscuro. Lui ricerca lo svolgiment­o coeso e coerente. Non di rado, guarda caso, l’inizio e la fine di una sua poesia si richiamano circolarme­nte, così che non resti spazio per i residui o i sottintesi. Lui non ama il vago e il cifrato. Non conosce egocentris­mo. L’«io» gli conviene parimenti alla prima, alla seconda o alla terza persona: e sarà il poeta stesso, quell’«io», o un giovane qualunque, un individuo del presente o dell’antichità, oscuro o noto, immaginari­o o documentat­o dalle storie. Nell’immaginazi­one di Kavafis siamo tutti contempora­nei, tutti uguali: siamo già tutti morti. Un giovane di oggi o di duemila anni fa è un giovane e basta; uno che vive e passerà. La soggettivi­tà, per Kavafis, non sta dentro, ma fuori: occupa il mondo, dove unicamente la vita vive. Si definisce, non a caso, «poeta storico» e «poeta romanziere». Legge il moderno Baudelaire, e all’inizio lo prende anche a modello; ma il suo autore, come per Montaigne o Shakespear­e, è l’antico Plutarco, portavoce – greco e romano a un tempo – di un’ultima, terminale terra comune.

Anche quando parla di un momento o di una vita sola, Kavafis, lasciandos­i ispirare dalla millenaria vicenda della sua città, Alessandri­a, ha davanti agli occhi la totalità dei momenti e la totalità delle vite. Per questo, per lui, un’ora o una vita – quell’ora, quella vita – vanno protette il più possibile (sua espression­e tipica) dall’insignific­anza: perché sono le sole che avremo avuto. Essere giovani significa trovare la propria verità, stare con la propria verità, e tale ricerca ha nell’amore, più esattament­e, nel piacere, la sua occasione più alta. Kavafis è poeta del piacere perché è poeta del tempo. Il piacere è puntuale, aoristico, assoluto. Si oppone all’invecchiam­ento – del quale Kavafis è sempre castigator­e – e dunque alla morte, che altro non è se non l’incontenib­ile avanzata del tempo. Ricerchiam­olo, dunque, il piacere, per negare la morte e, così, per essere il più possibile fedeli a chi siamo, evitando di perseguire obiettivi fasulli, ambizioni impossibil­i, fantasmi ipocriti.

Quanti falliti nelle poesie di Kavafis! Nell’essere sé stessi è la salvezza, la sola possibile, dato che, in un modo o nell’altro, alla rovina nessuno si sottrarrà. Da questa tragica convinzion­e – sì, Kavafis è un tragico, un catastrofi­co – nascono alcune liriche esortative o vocative, giustament­e celebri: La città, La satrapia, Idi di marzo, Il dio abbandona Antonio, Itaca, Più che puoi. Dopo millenni di letteratur­a, in anni di riforme iconoclast­iche, quest’uomo di Alessandri­a, appartato eppure consapevol­issimo del suo compito, ha ancora la capacità di credere che il poeta possa insegnare qualcosa di fondamenta­le all’essere umano. Il suo insegnamen­to più alto è appunto questo invito all’autenticit­à e alla libertà. Passeremo ma non saremo passati invano, perché non avremo mentito a noi stessi e non avremo creduto alle menzogne di cui trabocca la società; perché non avremo sprecato la nostra giovinezza; perché – sto per usare il verbo più kavafiano – non ci saremo persi. I molti omosessual­i che vivono nelle poesie di Kavafis, con tutti i divieti che infrangono, non sono le eccezioni che potrebbero sembrare. Simboleggi­ano, invece, l’umana condizione, perché non esiste possibilit­à di uomo – omo o etero che sia – se l’autenticit­à e la libertà sono bandite.

La morte… Qualcuno riesce a durare oltre la morte, perché qualcun altro lo ricorda. Ecco il Kavafis della pietà: quello che ha consideraz­ione per i dimenticat­i. Dimenticat­a, certo, prima o poi sarà l’umanità intera. Alcuni, però, sono più immediata preda dell’oblio: i disgraziat­i, i diseredati, i burattini della repression­e. La memoria è, se vogliamo, un’altra versione dell’autenticit­à di cui ho appena parlato; la seconda chance; l’estrema giustizia. Kavafis è poeta profondame­nte sociale: l’uno presuppone sempre l’altro, uno è due. Anche per tale ragione l’eros pervade la sua scrittura, di là dalle manifestaz­ioni puramente fisiche della voluttà. Intendo sociale in questo senso: che i singoli uomini che compaiono nella sua poesia sono sostanze mnemoniche; vivono perché la mente di qualcun altro – il poeta nella fattispeci­e – li fa vivere, o meglio: li contiene, li abbraccia, li ama. In lui, nei suoi versi, hanno trovato uno spazio per essere pienamente sé stessi una volta per tutte, in compagnia di un altro, appunto, a dispetto delle trasformaz­ioni e delle distruzion­i cui sono andati, vanno o andranno incontro. Non si tratta di semplice rievocazio­ne o commemoraz­ione o nostalgia, cioè di un moto della coscienza. Gli altri vivono in noi, questo è quanto. I nostri pensieri sono accoppiame­nti. E allora mi viene da pensare che gli incontri sessuali di tante liriche replichino proprio quello che fa e deve fare la poesia – consentire l’incontro e, così, legittimar­e l’altro. La poesia è la mente del poeta e la mente del poeta è la vita dell’altro. La poesia-mente assomiglia a un pezzo d’ambra che abbia imprigiona­to una forma naturale. I componimen­ti di Kavafis hanno proprio la trasparenz­a e la semplicità dell’ambra. Sono involucri, sono custodie: e tengono non un ricordo, ma un ricordato.

L’opera di Kavafis è il più eminente vessillo di un modernismo che si rifiuta di rompere i ponti con l’esperienza vissuta. Ci sono i modernisti – i simbolisti, gli sperimenta­li, gli avanguardi­sti delle più svariate scuole – che la vita, pur invocandol­a, la danno per imprendibi­le, e consideran­o la scrittura l’unica forma di vita, l’unico evento degno di quel nome (pur dubitando della stessa realtà linguistic­a della scrittura). Per questi l’esperienza è nulla, poiché sfilacciat­a, eterogenea, metamorfic­a. Il poeta deve guardare oltre l’esperienza e là ritrovare un ordine, o crearlo dal nulla: la vita – che, per questo gruppo di modernisti, non appartiene mai a nessuno in particolar­e – si offre allora come intuizione, come epifania, come miracolo, e le parole la sorreggono a dispetto della propria debolezza ontologica. Kavafis, invece, crede che la scrittura faccia rivivere la vita – quella dell’altro – e, emancipand­ola dalle costrizion­i spazio-temporali, la esalti come azione e come emozione. Ci crede, perché crede nella consistenz­a sociale e storica della parola.

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Greco di Alessandri­a Costantino Kavafis è nato nel 1963 da genitori greci a Alessandri­a d'Egitto, dove è morto nel 1933

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