Kavafis, far poesia con il tempo
Non scrisse di eternità o metafisica ma fu il poeta della cronologia. La sua è stata una delle più originali rappresentazioni delle stagioni umane della letteratura
Costantino Kavafis ci ha lasciato una delle più originali e commoventi rappresentazioni del tempo umano che sia dato trovare nella storia della letteratura. Quando diciamo tempo, pensiamo subito all’autobiografia di sant’Agostino o al romanzo di Proust, che di Kavafis è contemporaneo. Quando diciamo tempo, dovremmo pensare subito anche alle poesie di Kavafis.
In queste il tempo sta nell’emblematica sineddoche della vita individuale, o meglio della giovinezza. Non vi troveremo eternità, metafisica, Dio. Né vi troveremo, come nella prosa di Proust, una filosofia della realtà e della verità. Così pensa Kavafis riguardo al tempo: prendi quel momento, quell’attimo sommo e mettilo al sicuro, prima che si dissolva. Lui è il poeta della cronologia. Basta scorrere certi titoli per accorgersene: Nel 31 a. C. ad Alessandria; Per Ammone, morto a 29 anni, nel 610; Giorni del 1903; Giorni del 1896; Giorni del 1901; In una grande colonia greca, 200 a. C.; Giorni del 1909, ’10 e ’11; Malinconia del poeta Iasone, figlio di Cleandro, a Commagene, 595 d. C. etc.
I modi retorici sono molteplici: la confessione, il monologo drammatico, l’epigramma funerario, lo schizzo biografico, il raccontino. Kavafis è lirico che non liricheggia. Lo si è chiamato, detrattivamente, prosastico. Invece è solo nemico dell’oscuro. Lui ricerca lo svolgimento coeso e coerente. Non di rado, guarda caso, l’inizio e la fine di una sua poesia si richiamano circolarmente, così che non resti spazio per i residui o i sottintesi. Lui non ama il vago e il cifrato. Non conosce egocentrismo. L’«io» gli conviene parimenti alla prima, alla seconda o alla terza persona: e sarà il poeta stesso, quell’«io», o un giovane qualunque, un individuo del presente o dell’antichità, oscuro o noto, immaginario o documentato dalle storie. Nell’immaginazione di Kavafis siamo tutti contemporanei, tutti uguali: siamo già tutti morti. Un giovane di oggi o di duemila anni fa è un giovane e basta; uno che vive e passerà. La soggettività, per Kavafis, non sta dentro, ma fuori: occupa il mondo, dove unicamente la vita vive. Si definisce, non a caso, «poeta storico» e «poeta romanziere». Legge il moderno Baudelaire, e all’inizio lo prende anche a modello; ma il suo autore, come per Montaigne o Shakespeare, è l’antico Plutarco, portavoce – greco e romano a un tempo – di un’ultima, terminale terra comune.
Anche quando parla di un momento o di una vita sola, Kavafis, lasciandosi ispirare dalla millenaria vicenda della sua città, Alessandria, ha davanti agli occhi la totalità dei momenti e la totalità delle vite. Per questo, per lui, un’ora o una vita – quell’ora, quella vita – vanno protette il più possibile (sua espressione tipica) dall’insignificanza: perché sono le sole che avremo avuto. Essere giovani significa trovare la propria verità, stare con la propria verità, e tale ricerca ha nell’amore, più esattamente, nel piacere, la sua occasione più alta. Kavafis è poeta del piacere perché è poeta del tempo. Il piacere è puntuale, aoristico, assoluto. Si oppone all’invecchiamento – del quale Kavafis è sempre castigatore – e dunque alla morte, che altro non è se non l’incontenibile avanzata del tempo. Ricerchiamolo, dunque, il piacere, per negare la morte e, così, per essere il più possibile fedeli a chi siamo, evitando di perseguire obiettivi fasulli, ambizioni impossibili, fantasmi ipocriti.
Quanti falliti nelle poesie di Kavafis! Nell’essere sé stessi è la salvezza, la sola possibile, dato che, in un modo o nell’altro, alla rovina nessuno si sottrarrà. Da questa tragica convinzione – sì, Kavafis è un tragico, un catastrofico – nascono alcune liriche esortative o vocative, giustamente celebri: La città, La satrapia, Idi di marzo, Il dio abbandona Antonio, Itaca, Più che puoi. Dopo millenni di letteratura, in anni di riforme iconoclastiche, quest’uomo di Alessandria, appartato eppure consapevolissimo del suo compito, ha ancora la capacità di credere che il poeta possa insegnare qualcosa di fondamentale all’essere umano. Il suo insegnamento più alto è appunto questo invito all’autenticità e alla libertà. Passeremo ma non saremo passati invano, perché non avremo mentito a noi stessi e non avremo creduto alle menzogne di cui trabocca la società; perché non avremo sprecato la nostra giovinezza; perché – sto per usare il verbo più kavafiano – non ci saremo persi. I molti omosessuali che vivono nelle poesie di Kavafis, con tutti i divieti che infrangono, non sono le eccezioni che potrebbero sembrare. Simboleggiano, invece, l’umana condizione, perché non esiste possibilità di uomo – omo o etero che sia – se l’autenticità e la libertà sono bandite.
La morte… Qualcuno riesce a durare oltre la morte, perché qualcun altro lo ricorda. Ecco il Kavafis della pietà: quello che ha considerazione per i dimenticati. Dimenticata, certo, prima o poi sarà l’umanità intera. Alcuni, però, sono più immediata preda dell’oblio: i disgraziati, i diseredati, i burattini della repressione. La memoria è, se vogliamo, un’altra versione dell’autenticità di cui ho appena parlato; la seconda chance; l’estrema giustizia. Kavafis è poeta profondamente sociale: l’uno presuppone sempre l’altro, uno è due. Anche per tale ragione l’eros pervade la sua scrittura, di là dalle manifestazioni puramente fisiche della voluttà. Intendo sociale in questo senso: che i singoli uomini che compaiono nella sua poesia sono sostanze mnemoniche; vivono perché la mente di qualcun altro – il poeta nella fattispecie – li fa vivere, o meglio: li contiene, li abbraccia, li ama. In lui, nei suoi versi, hanno trovato uno spazio per essere pienamente sé stessi una volta per tutte, in compagnia di un altro, appunto, a dispetto delle trasformazioni e delle distruzioni cui sono andati, vanno o andranno incontro. Non si tratta di semplice rievocazione o commemorazione o nostalgia, cioè di un moto della coscienza. Gli altri vivono in noi, questo è quanto. I nostri pensieri sono accoppiamenti. E allora mi viene da pensare che gli incontri sessuali di tante liriche replichino proprio quello che fa e deve fare la poesia – consentire l’incontro e, così, legittimare l’altro. La poesia è la mente del poeta e la mente del poeta è la vita dell’altro. La poesia-mente assomiglia a un pezzo d’ambra che abbia imprigionato una forma naturale. I componimenti di Kavafis hanno proprio la trasparenza e la semplicità dell’ambra. Sono involucri, sono custodie: e tengono non un ricordo, ma un ricordato.
L’opera di Kavafis è il più eminente vessillo di un modernismo che si rifiuta di rompere i ponti con l’esperienza vissuta. Ci sono i modernisti – i simbolisti, gli sperimentali, gli avanguardisti delle più svariate scuole – che la vita, pur invocandola, la danno per imprendibile, e considerano la scrittura l’unica forma di vita, l’unico evento degno di quel nome (pur dubitando della stessa realtà linguistica della scrittura). Per questi l’esperienza è nulla, poiché sfilacciata, eterogenea, metamorfica. Il poeta deve guardare oltre l’esperienza e là ritrovare un ordine, o crearlo dal nulla: la vita – che, per questo gruppo di modernisti, non appartiene mai a nessuno in particolare – si offre allora come intuizione, come epifania, come miracolo, e le parole la sorreggono a dispetto della propria debolezza ontologica. Kavafis, invece, crede che la scrittura faccia rivivere la vita – quella dell’altro – e, emancipandola dalle costrizioni spazio-temporali, la esalti come azione e come emozione. Ci crede, perché crede nella consistenza sociale e storica della parola.