E la Grande Guerra portò alla follia
Chiunque desideri descrivere la follia, senza ricorrere a termini clinici, incontrerebbe non poche difficoltà. Letteratura, musica, scienza e altro lo hanno fatto continuamente. La filosofia greca, con la voce di Platone, ha ricordato che l’arte divinatoria, il rapimento mistico, il furore poetico e l’amore sono quattro forme di follia. Essa, scrive il sommo pensatore nel Fedro, giacché «proviene da un dio è migliore della temperanza che giunge dagli uomini». Per gli antichi elleni era parte dell’esperienza religiosa, stava alla base dell’attività dei profeti e financo dei politici, diventava la voce degli oracoli. L’apostolo Paolo evoca la «follia della croce», superiore al pensiero. I tentativi di definirla si accavallano da Omero a Erasmo, da Ariosto a Cervantes, via via sino a quanto scrissero Nabokov in Lolita o Pirandello nell’Enrico IV. In quest’’ultima opera, il grande letterato siciliano ricorda che trovarsi davanti a un pazzo significa incontrare «uno che vi scrolla dalle fondamenta tutto quanto avete costruito in voi, attorno a voi, la logica di tutte le vostre costruzioni».
I folli furono rinchiusi, isolati, sottoposti a cure; le loro sofferenze non sono conoscibili al pari delle altre. Magari si sono viste, difficilmente furono comprese. Tali riflessioni nascono in margine a un libro di Guido Alliney, docente di Filosofia medievale e apprezzato studioso di Duns Scoto e di Enrico di Gand, ma anche di argomenti dedicati al primo conflitto mondiale. Ora ha pubblicato una ricerca preziosa e scioccante dal titolo La follia nella Grande Guerra. Storie dai manicomi militari.
L’opera, come si suole dire, non fa parte di quei saggi storici in cui le sofferenze passate diventano statistica, dato, curiosità; è un libro che invita a riflettere su un dramma che ha riguardato le generazioni passate e del quale si hanno idee vaghe. Così come le decimazioni uccisero degli innocenti soldati che a volte non riuscivano nemmeno a capire la lingua in cui erano impartiti gli ordini, allo stesso modo i manicomi militari chiusero dietro le loro porte esistenze disperate, uomini che avevano conosciuto direttamente l’orrore o la bestialità e persero la ragione.
Qui non c’entra la letteratura. Platone è lontano; i greci con le loro fascinose ipotesi o i paradossi di Erasmo sono chissà dove, anzi sembra non siano mai esistiti. Incontrerete relazioni di tribunali militari, violenze, smarrimenti, fogli matricolari ritrovati, insomma l’altra faccia dell’eroismo e della retorica. Alliney divide la sua opera in otto capitoli e in ognuno di essi ecco una vita e i suoi dolori: a volte è un semplice fante, in un altro caso entrano in scena i dannati del Carso, non manca un dramma borghese.
Lo storico della filosofia si avvicina a queste esistenze con competenza, con un desiderio di restituire dignità e comprensione a sogni spezzati, a tormenti indecifrabili. Il numero dei 40mila folli «per cause di guerra è del tutto incerto, ed è più che altri utile per indicare le dimensioni di un fenomeno spesso sottovalutato», nota l’autore. Ritornano i nomi dei manicomi legati a una città: quello di Verona o di Treviso o di Colorno. Alliney ha tentato di «riordinare nelle loro integrità le vicende umane di alcuni dei militari ricoverati, cercando di collegare ambiente sociale, avvenimenti bellici ed esperienze negli istituti psichiatrici in una esposizione unitaria».
Shakespeare - terzo atto, scena prima de La dodicesima notte - fa proferire a Feste, il buffone, queste parole: «La pazzia, signore, se ne va a passeggio per il mondo come il sole, e non v’è luogo in cui non risplenda».