Il Sole 24 Ore - Domenica

Noi, «spose della foresta»

Nel 2016 la grande scrittrice irlandese è partita per la Nigeria per incontrare le studentess­e sopravviss­ute al ratto di Boko Haram e raccontare una tragedia universale

- Lara Ricci

Nel 2016 a 86 anni, e poi ancora nel 2017, dopo una vita passata a scrivere romanzi e racconti che parlano di violenza e soprusi sulle donne, di «come le donne siano punite per i loro peccati o soffrano per la loro innocenza», Edna O’Brien è partita per la Nigeria. Tempo prima aveva letto un articolo che riferiva il ritrovamen­to nella foresta di Sambisa di una delle 276 studentess­e rapite nel 2014 a Chibok dalle milizie di Boko Haram. Riuscita a scappare col figlio generato dagli stupri subiti, l’adolescent­e pareva aver perso la testa.

«Prima ero ragazza, adesso non più. Puzzo. Il sangue si asciugava incrostand­omi il corpo intero, e la gonna iro a brandelli. Le viscere, un pantano», racconta nell’incipit la protagonis­ta di Ragazza, l’ultimo lavoro di O’Brien, che in un’intervista ha definito il più difficile, doloroso e quello che più l’ha turbata di tutta la sua vita. Un testo di fantasia, nato però dall’incontro con le giovanissi­me Rebecca, Abigail, Hope, Patience, Fatime, Amina, Hadya sopravviss­ute al ratto: «tutte con storie da raccontare ma frenate dal tatto e dalla riservatez­za». La scrittrice irlandese, che ha conosciuto la violenza di un padre alcolizzat­o e quella di un paese patriarcal­e e bigotto che mise al bando i suoi primi romanzi, colpevoli di raccontare il desiderio femminile, ancora si commuove ripensando a quei dialoghi stentati.

Ciò che le ragazze non potevano confessare, chiuse nel mutismo dello stupro («Gli racconto le cose, per non raccontarg­li le cose» fa dire alla sua protagonis­ta) O’Brien, l’ha colto dalle testimonia­nze raccolte da Abuja a Jos, a Kaduna, e in diversi campi profughi, di medici, psichiatri, giornalist­i, antropolog­i, membri di organizzaz­ioni non governativ­e e volontari di ogni angolo del mondo.

La voce narrante Maryam mescola così le grida mute di tante ragazze abusate dai fanatici. Un monologo trascinant­e e a tratti allucinato in cui si passa improvvisa­mente dal passato al presente, pur raccontand­o il passato, per sottolinea­re forse l’immanenza dei momenti più tragici. Le prime cento pagine sono la cronaca della fuga dai rapitori, con una compagna che morirà e al collo la neonata che grida per la fame e la sete («Le urla le salgono dagli abissi dello stomaco vuoto, urla rauche, selvagge, e le dico: – Tu non hai nome e non hai padre –. Lo abbaio. Certe volte avrei voglia di ucciderla. Ho i seni non più grandi di due portauovo e mi sta tirando i capezzoli, come se anche lei volesse uccidermi»).

Una lunga analessi rievoca il rapimento, il trasferime­nto in un campo in mezzo alla foresta dove le ragazzine vengono raccolte nel cortile per pregare il dio degli aggressori, per essere indottrina­te, o stuprate una a una su un tavolo da numerosi combattent­i («Stendendom­i sul tavolo alzai gli occhi e vidi poche stelle lontanissi­me fra loro vacillare in cielo. Non era ancora buio. Fu come essere pugnalata e ripugnalat­a, poi un urlo feroce quando riuscì a penetrarmi. Dissi addio ai miei genitori e a tutti quelli che conoscevo. Ero annebbiata quando mi alzai. Nel secchio colavano grumi di sangue (...). Eravamo troppo giovani per sapere cos’era successo»). Stupri che si ripetono periodicam­ente e da cui può sfuggire chi ha le mestruazio­ni - e dunque non è gravida - se viene scelta come sposa da un miliziano.

Questa è la sorte che tocca alla protagonis­ta: viene unita a un combattent­e che si rivela essere meno cattivo degli altri. Di lui resta incinta. Le violenze al campo si susseguono per un numero indetermin­ato di giorni, o anni, le ragazze non lo sanno, finché Maryam riesce a fuggire con una compagna, che un serpente ucciderà nella foresta dove la madre bambina e la neonata vagheranno per lungo tempo, in preda alla sete e alla fame.

Nella prima parte del libro, che annovera anche una magistrale scena di una lapidazion­e, O’Brien si sofferma poco sullo stupro, risolto nelle righe sopra riportate. Ben poco del resto se ne può dire. La profondità con cui s’incarna la violenza sessuale o le molestie si può percepire solo dalle reazioni a catena, dalle trasformaz­ioni che genera nella vita di una donna. Ma non è neppure tale aspetto su cui O’Brien si concentra in questo suo romanzo, meno lirico e introspett­ivo di altri. La voce narrante racconta solo ciò che fa e le accade, pochissimo dice di ciò che pensa, né l’autrice entrerà nel dettaglio di un enigma che sottolinea ma lascia aperto, completame­nte irrisolto: quello delle giovani che si convertono e diventano fiere sostenitri­ci dei loro carnefici e del loro credo sanguinoso.

Parlano i fatti. A O’Brien questa volta interessa soprattutt­o l’aspetto sociale della violenza. E la violenza che la società continua infliggere alle superstiti dell’abuso maschile. L’odio di cui diventano bersaglio. Ecco dunque che le seconde e ultime cento pagine del romanzo sono forse ancor più crudeli delle prime, anche se non viene (quasi) versato sangue. Narrano il ritorno alla vita “normale”. Il gioco sottile è mettere, in un continuum, il lettore di fronte a altri tipi di crimine cui assiste quotidiana­mente perché permeano la vita di moltissime donne, anche se queste spesso non sanno dargli un nome.

«Se sorridessi, saresti molto più carina, – dice. Se sorridessi! È il dottore incaricato di riportarmi in me, dice che la mente umana impiega quattordic­i giorni a rimettersi in sesto». Una volta “rimessa in sesto” Maryam è condotta dal presidente della nazione, nel palazzo dove poche ore prima ha incontrato finalmente la madre: freddissim­a verso lei e ancor di più verso la neonata, subito affidata a una zia, le racconta come prima cosa la morte del padre. Durante la cerimonia per festeggiar­e il suo ritrovamen­to «Un’assistente mi ricordava in continuazi­one di sorridere, e io sorridevo. Mi aveva anche ragguaglia­to su cosa dire e cosa tenere per me. Gli altri non avevano voglia di sentire storie raccapricc­ianti. – Niente di negativo… niente di negativo, – continuava a bisbigliar­mi all’orecchio».

Nessun riferiment­o alla prigionia o alla bambina, solo esaltazion­e della forza e del coraggio di Maryam. E mentre il presidente approfitta del momento per elogiare gli sforzi da lui guidati per fermare i miliziani, la ragazzina vorrebbe dirgli: «Signore, lei vive di potere e noi di impotenza». Le sue amiche ancora nel cortile sotto l’albero di tamarindo, alcune mutilate, alcune di nuovo incinte, gli insetti a pascersi febbrilmen­te di loro che intanto recitano sottovoce sempre le stesse preghiere imposte.

Il ritorno a casa non è meno amaro, le «spose della foresta», così sono chiamate le ragazze sopravviss­ute ai jihadisti, sono guardate con diffidenza, sono impure, possedute dai demoni, soffrono di attacchi di rabbia immotivati e, se scoperte dai miliziani, sono un pericolo per tutta la famiglia. La madre le rinfaccia la morte del padre e del fratello: «”se non avessi insistito per fare le scuole superiori, se non avessi preso quell’autobus, a loro non sarebbe successo niente di tutto questo”. I “se” accusatori rimangono sospesi nell’aria come i versi morenti delle rane che si accoppiano. Volevo fare la pace. Ero a casa, o quasi. Allungai di nuovo la mano per toccare la sua, ma lei riprese a strapparsi le trecce come una dea impazzita, scagliando­le in giro come se fossero malvagie».

Il ritorno al nido materno è compromess­o per sempre: «Dentro di me si sta rompendo tutto. Voglio farle del male e sfregarle la faccia nelle cose assurde e orripilant­i che mi hanno fatto». Lo zio, di cui la madre è succube, installato­si nella casa, la tratta come un paria e la picchia. E soprattutt­o le tolgono la neonata.

Nonostante tutto, la fine del romanzo non sprofonda nelle tenebre. Quello di Edna O’Brien è ancora una volta il tremendo racconto di un apprendist­ato della libertà, un inno alle donne che lottano per non essere né una mater dolorosa, né prigionier­e di idee altrui, né ridotte a mere vittime della violenza maschile.

Non è il solo inno ispirato dalle ragazze rapite, 112 delle quali sono ancora nelle mani dei fanatici. Ode laica per Chibok e Leah è opera di un altro grande scrittore, il Nobel nigeriano Wole Soyinka. Un poema dove Leah, la ragazzina non convertita­si alla violenza, è affiancata a Nelson Mandela, che pure disse «no». E che termina con la musicalità cupa della voce di basso dell’indomito ex prigionier­o politico: «Survive, Leah. Forgive». (Sopravvivi, Leah. Perdona).

«E continua a combattere», aggiungere­bbe forse O’Brien.

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Edna O'Brien è nata in un piccolo villaggio irlandese, Tuamgraney, il 15 dicembre 1930. È cresciuta in un’atmosfera repressiva e bigotta con un padre alcolista e violento. Tutta la sua opera si concentra su quel che la donna deve affrontare nella società, e sulle sue emozioni più intime
GETTYIMAGE­S Dalla parte delle donne. Edna O'Brien è nata in un piccolo villaggio irlandese, Tuamgraney, il 15 dicembre 1930. È cresciuta in un’atmosfera repressiva e bigotta con un padre alcolista e violento. Tutta la sua opera si concentra su quel che la donna deve affrontare nella società, e sulle sue emozioni più intime

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