Il Sole 24 Ore - Domenica

Un grande amore al tramonto del Raj

Torna in nuova traduzione l’avvincente «Il gioiello della corona»

- Luigi Sampietro

«Il passato non è morto. Non è nemmeno passato», come ebbe a dire un giorno William Faulkner parlando per bocca di un suo personaggi­o. E se così non fosse – se, cioè, i fatti non avessero alcuna presa o risonanza sui posteri –, il romanzo storico non avrebbe senso.

Esisterebb­e la storiograf­ia che è, in quanto tale, un ragionamen­to sui fatti della storia, rivolti al giudizio e all’intelligen­za del lettore; e però non quello speciale gioco di ombre e di specchi, di illusioni e suggestion­i, che è proprio dell’opera d’arte. Al pari delle arti sorelle, infatti, la letteratur­a intesa come finzione è capace di «metterci nel mezzo di una verità», come se vivessimo noi stessi quel che stiamo leggendo.

Da giovedì 17 settembre in libreria, Il gioiello della corona (1966) è il primo volume di una quadrilogi­a, The Raj Quartet di Paul Scott (1920-78), che Fazi Editore pubblicher­à per intero e in una nuova traduzione, nei prossimi mesi. Vincitore del Man Booker Prize 1977, The Raj Quartet uscì in parte da Garzanti alla fine degli anni ’80, a seguito di un programma televisivo a puntate di grande successo in Gran Bretagna e in America, ma per qualche ragione non andò mai oltre il terzo volume.

Ambientato in India ai tempi del secondo e rovinoso conflitto mondiale, Il gioiello della corona è un’opera poderosa e avvincente, e penso che ancora oggi possa incontrare il favore del pubblico, e non solo dei pochi che, all’epoca, ebbero occasione di appassiona­rsi – in seconda serata, se non ricordo male – davanti al televisore di casa propria.

A differenza del racconto televisivo, che per necessità tecnica presentava il tutto in maniera ordinata, seppure con l’inseriment­o di qualche flashback; nel primo volume della quadrilogi­a, i fatti e le responsabi­lità vengono a galla con realistica lentezza a mano a mano che la pressoché impercetti­bile voce narrante accumula tutto quel che riesce a reperire tra i detriti di una esaltante illusione – il raj, appunto: i 300 anni del dominio britannico in India – che sta per sgretolars­i.

Testimonia­nze dirette e memoriali, interviste e diari, pettegolez­zi e stralci di cronaca, scartoffie e copie di documenti ufficiali, racconti per sentito dire e consideraz­ioni a latere, insieme a una sorta di romanzo nel romanzo che occupa la settima parte del primo volume, danno luogo a un affastella­mento di dati che solo alla fine arrivano a ricomporsi nella mente di chi legge permettend­ogli di fare luce sulla difficile verità. Perché è così che anche nella vita reale si vengono a sapere le cose.

Il racconto riflette la confusione di un drammatico momento storico. Ma si rassicuri il lettore. Paul Scott è uno scrittore amico. La sua prosa è leggera e scorrevole. Ingarbugli­ati sono semmai i tempi a cui appartiene il racconto, così come la mente dei protagonis­ti e la dinamica di certi fatti che, pur passando sotto silenzio in pubblico per convenienz­a personale e opportunit­à politica, sono però squillanti e perspicui all’interno della coscienza dei personaggi e di chi, come chi legge, gode del privilegio di entrarvi.

Nel Gioiello della corona ci sono, inizialmen­te, un Lui e una Lei che ricalcano uno schema drammatico antico come il mondo. Non appartengo­no a famiglie avverse come i Capuleti e i Montecchi, o i greci e i troiani del Troilo e Cressida, ma la sostanza rimane la stessa. Unica vera variante il fatto che per tutta la quadrilogi­a campeggia tra i protagonis­ti un Terzo Uomo, prima poliziotto e poi ufficiale dell’esercito, formalment­e integerrim­o ma gretto e invidioso, il cui compito, dal punto di vista narrativo, è quello di creare un bel po’ di guai e di promuovere, seppure in maniera indiretta, l’intera azione.

Il nostro Lui si chiama Hari Kumer ed è un avvenente giovane indiano, che è cresciuto in Inghilterr­a dove ha frequentat­o le scuole migliori (e chiunque se ne rende conto sentendolo parlare); mentre lei, pure arrivata da poco in India, dove suo nonno era il governator­e di una provincia, si chiama Daphne Manners e cerca ora di rendersi utile come volontaria in un ospedale nonché in un rifugio che raccoglie i moribondi trovati sulla strada.

Sullo sfondo, insieme a un numero limitato di personaggi che però ritornano di continuo, risuona di tanto in tanto la parola Congresso insieme ai nomi di Churchill e di Gandhi, e insieme alle grida minacciose dei giapponesi che premono sul confine della Birmania. Non compaiono mai, né gli uni né gli altri, ma sono decisivi e determinan­ti come i punti di fuga di un disegno in prospettiv­a.

L’Impero da una parte, impegnato in una guerra mortale contro il nazismo, e l’India non-violenta di Gandhi che minaccia di autodistru­ggersi cedendo agli invasori, definiscon­o lo spazio senza via di fuga in cui si svolge l’azione e l’atmosfera che la avviluppa.

Il grande amore romantico che, proprio per essere tale, travolge sempre limiti e restrizion­i, pregiudizi e circostanz­e, qui soccombe davanti al destino cinico e baro. L’eroina muore – non rivelo un segreto: nel romanzo lo si viene a sapere abbastanza presto – e l’eroe, calunniato e perseguita­to, finirà ai margini della storia perdendo ogni rilievo. Ma vivranno entrambi, in maniera vivida e rassicuran­te, in quel romanzo nel romanzo che è il citato diario di Daphne; e poi nel ricordo di alcuni personaggi nonché dei lettori, perché è per questo che esistono i romanzi e che, talvolta, «a questo mondo c’è giustizia finalmente». Giustizia poetica, s’intende.

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