Il Sole 24 Ore - Domenica

Scrivere versi con un niente che è tutto

A suo agio nelle parole comuni e capace di farne musica

- Gianluigi Simonetti

Tornano le poesie di Patrizia Cavalli, ed è più o meno sempre come la prima volta. Perché negli anni il suo modo di scrivere è mutato poco (il libro d’esordio, Le mie poesie non cambierann­o il mondo, uscì nel 1974, in un clima poetico che non sapremmo immaginare più lontano dall’odierno). Ma soprattutt­o perché leggendo questi versi fatti apparentem­ente di nulla la reazione è ancora e sempre di piacere e sollievo, come chi verifica che c’è qualcuno che ancora lo sa fare.

Se si è poeti si può ancora scrivere poesia con niente – perché se si è poeti quel niente è tutto. Un senso naturale dell’a capo (che spesso ritaglia endecasill­abi spontanei e inevitabil­i come respiri); sentirsi a proprio agio nelle parole di tutti, così risapute eppure così nuove quando qualcuno riesce a farne musica (la loro musica, autosuffic­iente); non pretendere di costruire o decostruir­e chissà cosa, perché questa lirica che si vuole naturale e sorgiva può spingersi a combattere - o più spesso a venire a patti - con gli inciampi del quotidiano, ma a grandi linee ha accettato saggiament­e la realtà così com’è: «Posso essere l’angelo che arriva/ e ferma la mano di chi colpisce e offende,/ ma non potrei in nessun modo mai pretendere/ che non esista chi colpisce e offende». Non soltanto le poesie, nient’altro può cambiare il mondo. Le cose sono quel che sono, per questo la tautologia, sapienteme­nte articolata, continua a essere la figura retorica forse più tipica di Patrizia Cavalli («Sarebbe sopportabi­le ogni male/ se non ci fosse l’interpreta­zione, / sarebbe quel che è, non quel pugnale/ che uccide e vuole pure aver ragione»).

E allora si può scrivere di tutto, purché sia qualcosa di concreto e di reale: un dolore, un cielo stellato, una bottiglia di whisky, un antidepres­sivo («Gloria perpetua alla fluoxetina/ la solerte messaggera dei neuroni. / Ora non più scialbi e soli, l’uno all’altro/ forestieri. Ora c’è/ l’allegra vivandiera che li scalda»). La rima, come si vede, può capitare, e spesso càpita, ma come càpita un incidente involontar­io. E può succedere, naturalmen­te, di non chiudere una poesia come si deve, perdere il filo e un po’ buttarla via. Quando però l’acrobazia riesce – e a Patrizia Cavalli riesce spesso - non c’è niente da aggiungere o levare, tutto è al suo posto e non può che essere così: «Io guardo il cielo, il cielo che tu guardi/ ma io non vedo quello che tu vedi./ Le stelle se ne stanno dove sono, / per me luci confuse senza nome, / per te costellazi­oni nominate/ prima che il sonno scioglierà il tuo ordine. /Ah, sognami senza ordine e dimentica/ i tanti nomi, fammi stella unica:/ non voglio un nome ma stellarti gli occhi, / esserti firmamento e vista chiusa, /oltre le palpebre, splenderti nel buio/ tua meraviglia e mia, immaginata».

L’altra faccia della tautologia («le stelle se ne stanno dove sono») è come si vede l’inversione («ma io non vedo quello che tu vedi»), in questa poesia come in tutto il libro. Da qui l’opposizion­e permanente che vige tra l’io e il tu, tra amore e gelosia, tra narcisismo e disprezzo di sé. Da qui la dialettica tra luce e buio, cielo e terra, desiderio e castità («io casta e dissoluta»); il controcant­o di illusione e sconforto («la mia disperazio­ne è la speranza»), l’alternarsi di festosità e malinconia («Festeggiam­o la vita/ consoliamo la morte/ o magari il contrario/ finché viviamo»). Sul piano dei registri, simmetrica­mente, torna l’inconfondi­bile miscela di tragedia e commedia, e di comicità e dolore, che la Cavalli distilla fin dai suoi inizi. E tornano, portati dalla memoria poetica (volontaria o involontar­ia), i suoi maestri di sempre. Elsa Morante, naturalmen­te; non solo per il poemetto a lei dedicato - Con Elsa in Paradiso - che si chiude con un’agnizione definitiva sul loro personalis­simo rapporto, ma per legami e debiti specifici nel modo di scrivere e di stare al mondo (per Cavalli «Pensiero che non sente/ non pensa veramente. Solo un forte sentire/ lo costringe a capire»; per Morante «Solo chi ama conosce»). Ma appare anche Sandro Penna, a cui Cavalli ruba (e non è la prima volta) una delle sue Bellezze in bicicletta; e appare, se non sbaglio, Umberto Saba, la cui Preghiera alla madre («farmi, o madre/ come una macchia dalla terra nata/ che in sé la terra riassorbe ed annulla») rintocca fatalmente in testa alla Cavalli quando il dio della poesia la spinge a parlare di tutt’altro amore: «finché non verrà sciolto nella terra».

Tutto come sempre, insomma, ma non proprio tutto uguale. In questa raccolta che s’intitola con una certa dose di ironia Vita meraviglio­sa c’è più solitudine che mai, più oblìo, più senso di morte. Anzi, la morte consiste proprio nello scoprirsi definitiva­mente soli e nel non poter più ricordare nulla d’intero. Il mio felice niente - che è titolo di una sezione ed explicit di una poesia (in rima con «la mia nemica mente») – racchiude forse la formula di un esorcismo: scrivere come cucire, contro la cancellazi­one, con uno stupore insieme senile e bambino. «E me ne devo andare via così? / Non che mi aspetti il disegno compiuto/ ciò che si vede alla fine del ricamo/ quando si rompe con i denti il filo/ dopo averlo su se stesso ricucito/ perché non possa più sfilarsi se tirato./ Ma quel che ho visto si è tutto cancellato./ E quasi non avevo cominciato».

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