La vita di Liborio scandita dalla storia
Èfresco di vittoria al premio Campiello Vita, morte e miracoli di Bonfiglio Liborio, romanzo d’esordio dello scrittore e professore di filosofia quasi settantenne Remo Rapino, abruzzese, già autore di racconti e poeta. È un’opera di grande vivacità e insieme di meditata riflessione, che cattura per ritmo, pensiero e coinvolgimento emotivo.
Da un lato si inserisce nella linea dei romanzi di ricostruzione storica e letteraria in chiave autobiografica, il cui nostro modello massimo è costituito dalle splendide ottocentesche Confessioni di un italiano di Nievo dall’altro segue la scia delle rappresentazioni artistiche e narrative dei pazzi e dei matti, dalla rinascimentale Nave dei folli di Bosch alle novecentesche Vite brevi di idioti di Cavazzoni (e penso pure al ritorno di attenzione sulla figura del pittore Ligabue riproposta dal film Volevo nascondermi di Diritti, di cui hanno parlato in queste pagine Battocletti ed Escobar). Gli esempi possono essere naturalmente tanti e lo stesso autore ha segnalato Don Chisciotte e Forrest Gump.
Il romanzo occupa un arco cronologico che va dal 1926 al 2010, che sono gli 84 anni della vita di Liborio, nato da padre ignoto fuggito prima della sua nascita (forse in America latina?) e dalla madre Maria Bonfiglio, morta durante l’infanzia di Liborio. Già dall’inizio l’esistenza di Liborio è segnata dalla sfortuna e dall’assidua presenza di «segni neri». Sembra una sorte obbligata, fatale; eppure contro questa predestinazione Liborio combatte con tenacia e speranza, anche se i momenti di sconfitta e di sconforto infine prevalgono. Resta però sempre la fiducia in un possibile ribaltamento, in un’utopica redenzione liberatoria come nel film Miracolo a Milano di De Sica e Zavattini in cui «poi alla fine tutti i poveri cristi diventano come angeli che volano in cielo sulle scope e sono pure felici».
Liborio ha punti di riferimento positivi, a un tempo reali e mitici, come il maestro delle elementari, che è stato l’unico a fargli sognare una vita di riscatto, e il libro Cuore di De Amicis, con cui egli conosce la bellezza dei sentimenti e la durezza delle differenze sociali. Nel fluido monologo del romanzo egli racconta la sua vita scandita da anni, episodi e persone, periodi e passaggi storici: il fascismo, il secondo conflitto mondiale e la guerra civile, la repubblica e il boom economico, la politica e il sindacato, la contestazione operaia e studentesca, il manicomio, il crollo del muro di Berlino, l’attentato alle torri gemelle di New York. Attraverso le sue parole (il linguaggio è un punto forte del romanzo) sfila la storia del Novecento e quella dei primi anni Duemila. Dalla sua presunta marginalità Liborio vive gli eventi centrali della storia e la sua è ancora di più una microstoria perché è l’esperienza di una cosiddetta «testa pazza» (un «cocciamatte»). Eppure, come gli ripete più volte l’acuto e sornione dottore del manicomio Mattolini Alvise (i nomi propri sono un’altra sferzante qualità del libro), in un doppio piano di ironia, «Ehi però mica è tanto fuori questo Bonfiglio Liborio, scarpe grosse e cervello fino». No, Liborio non è «tanto matto»: ma chi lo è? Tra i tanti momenti cruciali che egli interpreta c’è anche quello della dismissione dei manicomi, della legge 180 promossa da Basaglia.
Tra i capitoli più intensi, la narrazione delle stragi naziste dopo l’armistizio del 1943 (che lasciarono macchie di sangue incancellabili) e i racconti di vita industriale a Milano e Bologna nelle fabbriche Borletti, Santarosa e Ducati. La pazzia e l’alienazione di Liborio non vengono dalla natura, sono il frutto sociale dell’«ingiustizia del capitalismo selvaggio» che culmina nella catena di montaggio, nel controllo asfissiante dei tempi e nel rumore assordante dei luoghi di lavoro, efficace rivisitazione di alcuni testi esemplari della letteratura industriale del secondo Novecento, da Tempi stretti di Ottieri alla Morte in
banca di Pontiggia, da Memoriale di Volponi alla Vita agra di Bianciardi.