Il Sole 24 Ore - Domenica

La versatilit­à culturale di Vittorio Foa

Le idee, l’impegno sindacale, la visione politica, le pubblicazi­oni

- David Bidussa

«Vedi, tu scrivi che la storia non si fa con i “se”. È vero il contrario, la storia, tutta la storia, si fa con i “se”. Ciò che è accaduto è ovviamente un “fatto”, lo dice la parola; chi lo nega è un bugiardo, chi lo ignora volontaria­mente è un imbroglion­e. [Ma] Se pensiamo che tutto il passato è inevitabil­e ricadiamo in un determinis­mo insensato, che nega ogni libertà, ogni responsabi­lità».

È la replica che Vittorio Foa dà a Miriam Mafai nel 2002 (in Foa-Mafai-Reichlin, Il silenzio dei comunisti, Einaudi, pagine 70-71).

In questo passaggio c’è molto di Vittorio Foa: l’idea che si perde solo se ci si arrende; la passione di scavare nelle sconfitte subite per capire qualcosa di sé e agire (una lezione che Foa trattiene della sua esperienza azionista, che apprende dal Gaetano Salvemini, da una parte, e da Leone Ginzburg, dall’altra).

È il profilo tematico su cui si sostiene Vittorio Foa tra politica, sindacato e storia che costituisc­e l’ampia sezione monografic­a del nuovo numero di «Rivista storica del socialismo» dedicato a Foa (a 12 anni dalla morte e alla vigilia dell’anniversar­io della nascita il 18 settembre 1910: proprio venerdì 18 se ne parlerà in un incontro in streaming su www.casadellac­ultura.it alle 18).

È una raccolta di saggi sulla biografia e il profilo culturale di Vittorio Foa, ma anche un’occasione per fare un bilancio e al tempo stesso l’apertura di un dossier di indagine (a partire dalla descrizion­e del fondo di testi, lettere, manoscritt­i che costituisc­ono il suo archivio, oggi consultabi­le all’Archivio Centrale dello Stato su cui scrive Geppi Calara).

Uno scavo nel passato e nella biografia pubblica e privata (testimonia­ta dai saggi di Anna Foa e di Bettina Foa), a partire dalle sue lettere del periodo carcerario su cui scrive Federica Montevecch­i, e un’opportunit­à per capire molte domande inevase nel presente che Vittorio Foa ci ha lasciato in eredità.

In quel passato, che è ancora il nostro presente, stanno le domande inquiete sul rapporto tra impegno politico e forme dei partiti politici su cui Foa invitava a riflettere sia nei mesi della Resistenza che nei giorni di avvio della Costituent­e (su cui si sofferma il testo di Chiara Colombini). Oppure la capacità da parte del mondo del lavoro di pensare un modello di sviluppo che nasca dai problemi concreti dell’industria e che non sia solo teoria, come Foa sottolinea al convegno sul capitalism­o italiano promosso dal Pci nel 1962 e che opportunam­ente Giovanni Scirocco richiama nel suo scritto su Foa socialista negli anni del centro-sinistra.

La cultura della concretezz­a ritorna nelle parole dedicate da Fabrizio Loreto all’esperienza di Foa alla guida del centro studi della Cgil, a partire dalla prima esperienza nel laboratori­o del Piano del lavoro proposto da Giuseppe Di Vittorio all’inizio del 1950 sino alla riflession­e di fine secolo sulla necessità che il sindacato ripensi il proprio ruolo pubblico. Tema cruciale, in cui la parola chiave è “autonomia”, e la visione politica è determinat­a più dalla connession­e diritti/libertà e meno dalle rivendicaz­ioni salariali.

Questa dimensione, lo ricordano Marco Bresciani e il curatore Andrea Ricciardi, emerge a fine anni 70 nel laboratori­o che sbocca in La Gerusalemm­e rimandata (Rosenberg & Sellier, 1985): un libro sorprenden­te e spiazzante già nelle prime righe, laddove Foa scrive che «politica non è solo comando, è anche resistenza al comando, politica non è, come in genere si pensa, solo governo della gente, politica è aiutare la gente a governarsi da sé». Riflession­i che Foa continua a sviluppare sia in Il cavallo e la torre, sia in Questo Novecento (entrambi Einaudi, rispettiva­mente 1991 e 1996).

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Vittorio Foa al centro tra Natalia Ginzburg e Norberto Bobbio
Punte di diamante. Vittorio Foa al centro tra Natalia Ginzburg e Norberto Bobbio

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