La versatilità culturale di Vittorio Foa
Le idee, l’impegno sindacale, la visione politica, le pubblicazioni
«Vedi, tu scrivi che la storia non si fa con i “se”. È vero il contrario, la storia, tutta la storia, si fa con i “se”. Ciò che è accaduto è ovviamente un “fatto”, lo dice la parola; chi lo nega è un bugiardo, chi lo ignora volontariamente è un imbroglione. [Ma] Se pensiamo che tutto il passato è inevitabile ricadiamo in un determinismo insensato, che nega ogni libertà, ogni responsabilità».
È la replica che Vittorio Foa dà a Miriam Mafai nel 2002 (in Foa-Mafai-Reichlin, Il silenzio dei comunisti, Einaudi, pagine 70-71).
In questo passaggio c’è molto di Vittorio Foa: l’idea che si perde solo se ci si arrende; la passione di scavare nelle sconfitte subite per capire qualcosa di sé e agire (una lezione che Foa trattiene della sua esperienza azionista, che apprende dal Gaetano Salvemini, da una parte, e da Leone Ginzburg, dall’altra).
È il profilo tematico su cui si sostiene Vittorio Foa tra politica, sindacato e storia che costituisce l’ampia sezione monografica del nuovo numero di «Rivista storica del socialismo» dedicato a Foa (a 12 anni dalla morte e alla vigilia dell’anniversario della nascita il 18 settembre 1910: proprio venerdì 18 se ne parlerà in un incontro in streaming su www.casadellacultura.it alle 18).
È una raccolta di saggi sulla biografia e il profilo culturale di Vittorio Foa, ma anche un’occasione per fare un bilancio e al tempo stesso l’apertura di un dossier di indagine (a partire dalla descrizione del fondo di testi, lettere, manoscritti che costituiscono il suo archivio, oggi consultabile all’Archivio Centrale dello Stato su cui scrive Geppi Calara).
Uno scavo nel passato e nella biografia pubblica e privata (testimoniata dai saggi di Anna Foa e di Bettina Foa), a partire dalle sue lettere del periodo carcerario su cui scrive Federica Montevecchi, e un’opportunità per capire molte domande inevase nel presente che Vittorio Foa ci ha lasciato in eredità.
In quel passato, che è ancora il nostro presente, stanno le domande inquiete sul rapporto tra impegno politico e forme dei partiti politici su cui Foa invitava a riflettere sia nei mesi della Resistenza che nei giorni di avvio della Costituente (su cui si sofferma il testo di Chiara Colombini). Oppure la capacità da parte del mondo del lavoro di pensare un modello di sviluppo che nasca dai problemi concreti dell’industria e che non sia solo teoria, come Foa sottolinea al convegno sul capitalismo italiano promosso dal Pci nel 1962 e che opportunamente Giovanni Scirocco richiama nel suo scritto su Foa socialista negli anni del centro-sinistra.
La cultura della concretezza ritorna nelle parole dedicate da Fabrizio Loreto all’esperienza di Foa alla guida del centro studi della Cgil, a partire dalla prima esperienza nel laboratorio del Piano del lavoro proposto da Giuseppe Di Vittorio all’inizio del 1950 sino alla riflessione di fine secolo sulla necessità che il sindacato ripensi il proprio ruolo pubblico. Tema cruciale, in cui la parola chiave è “autonomia”, e la visione politica è determinata più dalla connessione diritti/libertà e meno dalle rivendicazioni salariali.
Questa dimensione, lo ricordano Marco Bresciani e il curatore Andrea Ricciardi, emerge a fine anni 70 nel laboratorio che sbocca in La Gerusalemme rimandata (Rosenberg & Sellier, 1985): un libro sorprendente e spiazzante già nelle prime righe, laddove Foa scrive che «politica non è solo comando, è anche resistenza al comando, politica non è, come in genere si pensa, solo governo della gente, politica è aiutare la gente a governarsi da sé». Riflessioni che Foa continua a sviluppare sia in Il cavallo e la torre, sia in Questo Novecento (entrambi Einaudi, rispettivamente 1991 e 1996).