Sulla salvaguardia del principio di laicità
Èvicenda che nasce da un manifesto pubblicitario dove, a caratteri cubitali, è scritto: “viviamo bene senza Dio”. Ecco, di recente la Cassazione ha accolto il ricorso dell’Unione degli Atei e degli Agnostici Razionalisti e ha riconosciuto loro quel che loro era stato contestato da una precedente pronuncia della Corte di Assise di Roma: il diritto cioè di diffondere con gli strumenti della propaganda (manifesti inclusi, evidentemente) convinzioni palesemente ostili al fenomeno religioso.
Perché la Suprema Corte si è risolta così? L’ha fatto perché il nostro ordinamento è un sistema di libertà; più precisamente: un sistema laico di libertà, che per essere tale si livella su una misura unica, la stessa per tutti, dinanzi alla quale perciò scompaiono sia gli innalzamenti sia gli abbassamenti, ognuno essendo egualmente libero di manifestare con atti esteriori la credenza (o la miscredenza) maturata nel foro della propria coscienza. Eguale libertà: è l’art. 8 della nostra Costituzione al quale non a caso Pierluigi Consorti in questo libro, caldo di convinzioni e robusto di dottrina, attribuisce «il senso di una vera e propria rivoluzione liberale» la quale mancherebbe a se stessa e si sconcerebbe all’incontrario di ciò che vuole essere se dimenticasse che la libertà non è un bene frazionabile: «basta che qualcuno goda di una minore libertà di un altro, per ammettere che, in realtà non c’è libertà per nessuno».
Cosa ne viene? Ne viene che nel conflitto tra la religione e l’irreligione, in questa lotta che non si consuma mai, e che mai estenua contendenti di così antica ruggine, lo Stato è laico-liberale quando ripara in disparte e non prende posizione né per la credenza né per la miscredenza, lasciando che ognuno, a parità di condizioni con tutti gli altri, se ne vada per le strade che gli comanda la sua spiritualità. Sarà buona quella strada? Sarà cattiva? Non sappiamo. Sappiamo soltanto che è la sua strada. E tanto basta. Tanto basta, si capisce, per chi prende sul serio le prerogative della coscienza individuale. In questo senso ha perfettamente ragione Consorti quando scrive che «la laicità dello Stato riguarda in definitiva la sua capacità di garantire la libertà delle coscienze».
Solo che “libertà di coscienza” è locuzione ancipite: dice due cose diverse che non sempre procedono sincrone e che, anzi, spesso si urtano e bisticciano tra loro. Se così non fosse, non capiremmo perché le encicliche papali (di esse sole ragioniamo, ben sapendo che il cattolicesimo è realtà assai più ampia e variopinta), non intenderemmo, dicevamo, perché mai questi documenti dell’ufficialità cattolica, tutte le volte che richiamano i diritti della coscienza, sempre, assolutamente sempre, con l’implacabile regolarità di un metronomo, fulminano come “tentazione luciferina” le pretese dei singoli di decidere da soli la misura del bene e del male, e da soli stabilire il criterio del giusto e dell’ingiusto.
Il fatto è che per il laico-liberale, la libertà di coscienza è il diritto di professare una verità qualunque – una qualunque, intendiamo? – e dunque anche di non professarne nessuna, se così gli piace; là dove per il cattolico dell’ufficialità, la libertà di coscienza è il diritto di non essere distolti con la forza dalla ricerca dell’unica verità, che però è già lì, precostituita e solo attende di essere scoperta. Trattandosi di verità precostituita, tutto, tutto è già stabilito in anticipo: al più gli uomini potranno precisarla meglio quella verità e meglio adattarla ai tempi, ma certo non dovranno inventare nulla e nulla potranno concedere agli spasimi della loro auto-determinazione. Con il risultato che la verità cattolica presiede a una specie di percorso obbligato che sollecita i singoli ad avanzare lungo la stessa, identica strada che già ieri, ieri l’altro e sempre si stendeva davanti al loro sguardo. Nel che è esattamente l’opposto del principio laico, ossia del principio per il quale le strade del mondo sono molteplici ed imprevedibili, e in punto di principio non ve ne è alcuna che l’umano non possa tentare sotto la spinta della propria iniziativa. Sicchè è vero quel che scrive Consorti, che cioè «un religioso può essere laico, purchè accetti di interrogare la propria coscienza […] senza affidarsi sempre e comunque a verità già pronte»; è vero ma ad una condizione: a patto che si precisi di quale “religioso” stiamo discorrendo. Tutti, proprio tutti i religiosi? Noi non lo diremmo. Diremo molti; magari quasi tutti. Ma non uno di più.
Certo, quella parolina lì - “quasi” - reca con sè il respiro di una sfumatura. Pure, come piaceva insegnare un tempo, resta fermo che «le sfumature sono l’ornamento del vero» (De Sanctis).