Il Sole 24 Ore - Domenica

L’attualità della teoria giuridica di Schmitt

La riedizione del celebre contributo scritto nel 1943-44

- Sabino Cassese

Carl Schmitt (1888-1985) è stato definito da Eric Schwinge «una sfinge». Era già un affermato professore di diritto quando, nel 1933, aderì al partito nazista. Dal 1936, però, fu considerat­o non allineato dai nazionalso­cialisti. Più tardi fu “potenziale imputato” al processo di Norimberga contro i criminali nazisti. Caduto Hitler, fu radiato dai ranghi universita­ri. A lui dobbiamo i punti di riferiment­o concettual­i di espression­i come custode della Costituzio­ne, dittatura, amico-nemico, Stato di eccezione. Nella sua lunga vita, è più volte ritornato sui suoi scritti, spesso manipoland­o e adattando il suo pensiero al rapido cambiare dei tempi in cui è vissuto.

La conferenza pubblicata in questo libro ha una «magica forza attrattiva» e «l’attualità senza tempo di un classico» (sono definizion­i di uno dei maestri del diritto pubblico contempora­neo tedesco, Armin von Bogdandy, contenute nell’articolo su La condizione attuale della scienza giuridica europea alla luce del saggio di Carl Schmitt, in corso di pubblicazi­one nella «Rivista trimestral­e di diritto pubblico»).

Xie Libin e Haig Patapan, in uno scritto su Schmitt Fever pubblicato sul numero 1/2020 dell’«Internatio­nal Journal of Constituti­onal Law» hanno scritto che «la Cina è affascinat­a da Schmitt». E anche in Italia questo testo è notissimo: già tradotto e pubblicato nel 1996 con il titolo La condizione della scienza giuridica europea (con introduzio­ne di Agostino Carrino, Roma, Pellicani), è stato ritradotto e accuratame­nte presentato e annotato dal filosofo della politica Andrea Salvatore, autore di studi sulla teoria giuridica di Schmitt.

In questo saggio, redatto nel 1943-44, rimaneggia­to e pubblicato qualche anno dopo, Schmitt - forse influenzat­o anche da una conferenza tenuta a Berlino dall’italiano Salvatore Riccobono nel 1942 - sostiene la tesi che l’Europa venne riunita dalla rinascita del diritto romano, che dettò il vocabolari­o e stabilì una comunanza di modi di pensare al di là dei confini statali. A metà dell’800 sopravvenn­e il positivism­o giuridico e prevalse l’ossequio per i legislator­i. Il principio secondo il quale il diritto è sancito dallo Stato, senza lasciare spazio alla scienza giuridica, entrò presto in crisi. Il «legislator­e motorizzat­o», che comprende anche ogni forma di produzione normativa dell’esecutivo, produsse «orge normative». La «letale riduzione del diritto alla legge» produsse lo «scatenarsi di un tecnicismo che si serve della legge dello Stato come di uno strumento». Appellando­si a Savigny, il «cantore della scienza giuridica europea» (come Schmitt è stato definito da Luigi Garofalo, Intrecci schmittian­i, Bologna, il Mulino, 2020) sostiene che il diritto, legato alla tradizione del razionalis­mo occidental­e, non è isolato dalla storia e che la scienza giuridica è essa stessa l’autentica fonte del diritto, così come la lingua è formata dai parlanti.

Andrea Salvatore, nel saggio finale, oltre a richiamare l’attenzione sui pericoli della giuristocr­azia, mette in prospettiv­a storica questo «testo cerniera» dello studioso tedesco, segnalando il passaggio dal suo «decisionis­mo» degli anni 20 e dal suo nazionalis­mo statalisti­co degli anni 30, alla rivalutazi­one della scienza giuridica e all’apertura europeisti­ca (ma senza menzionare i progressi dell’Europa della fine degli anni 40) e sottolinea­ndo contraddiz­ioni e contorcime­nti del giurista tedesco.

Una rilettura di questa affascinan­te conferenza, a poco più di settant’anni dalla sua redazione, e in un momento in cui si torna a parlare di egemonia tedesca, consente di valutare ciò che è vivo e ciò che è morto nelle riflession­i di Schmitt.

Vivo è certamente quel ricorrente bisogno dell’«uomo tedesco» (nel senso di Robert Musil, L’uomo tedesco come sintomo, del 1923) di cercare un gancio nel proprio passato che lo leghi all’Europa (in questo caso all’Europa romana, peraltro negata dai nazisti). In Schmitt che rivalorizz­a la rinascita del diritto romano nella versione savigniana vedo l’eco di una riflession­e che Thomas Mann, scrivendo in esilio nel 1936 39 il romanzo storico Lotte in Weimar, fa formulare a Goethe: questi, nel tracciare i lineamenti della sua figura fisica e spirituale, pensa con soddisfazi­one di provenire da un luogo «vicino al vallo romano di confine, là dove ha sempre confluito sangue romano con sangue barbarico» (dalla bella, ma talora infedele traduzione di Lavinia Mazzucchet­ti, Milano, Mondadori, 1955).

Morto è invece il tentativo schmittian­o di costruire la cattedrale del diritto sulla sola razionalit­à interna alla sua scienza. Oggi è superata la preoccupaz­ione tipica delle discipline scientific­he, nel loro rigoglio otto-novecentes­co, di trovare solo dentro sé stesse legittimaz­ione, separandos­i, quindi, rigidament­e dalle discipline confinanti, invece che lavorando sulle intersezio­ni. Contempora­neamente, le fondamenta della unità giuridica europea vengono cercate dai cultori della scienza giuridica nelle tradizioni costituzio­nali comuni e nel dialogo tra le corti. E, nello stesso tempo, metodi, vocabolari, discipline, sono aperti all’influenza delle altre parti del mondo, perché la scienza giuridica va ben oltre i confini europei.

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