Il Sole 24 Ore - Domenica

Quando la macchina è un ideale di bellezza

Nell’intreccio tra estetica, politica e morale la concezione razionalis­tica si è innestata a un’idea, che era prima minoritari­a, di appropriat­ezza e conformità allo scopo anche sociale

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degli astri è stata sempre considerat­a manifestaz­ione suprema di quest’idea di bellezza. Mentre per i cultori del bello espressivo e romantico, «meccanico» si dice in senso spregiativ­o, come qualcosa cui manca la spontaneit­à della vita ed è irrigidito in una razionalit­à frigida e impassibil­e, per gli amanti della concezione classica la macchina può dirsi bellissima proprio perché razionalme­nte sovrumana, immune dalla finitezza terrena: meccanica, estetica e trascenden­za sono allora tutt’uno. Non c’è incarnazio­ne più potente di quel modello metafisico della spettacola­re sequenza di 2001: Odissea nello spazio, in cui il walzer di Strauss accompagna la danza gioiosa tra i corpi celesti e i corpi meccanici delle astronavi e degli strumenti tecnici, che fluttuano graziosame­nte nello spazio cosmico grazie all’assenza di gravità.

Possiamo seguire una metamorfos­i terrena di questa idea di bellezza razionale e geometrica riflettend­o sulla forma e sul significat­o che ha assunto in rapporto a una delle principali modalità con cui il pensiero moderno ha problemati­zzato la tecnica, il rapporto tra mezzi e fini. Lasciando momentanea­mente in sospeso se quest’epoca moderna si sia conclusa, e se sia dunque necessario congedarsi anche dai suoi modelli estetici, dobbiamo cominciare dall’evento che permette di

Un fotogramma di 2001 Odissea nello spazio, capolavoro di Stanley Kubrick

(1968) demarcarne l’inizio, ossia la rivoluzion­e industrial­e. Questo approccio non va inteso in senso banalmente materialis­tico. La rivoluzion­e tecnologic­o-industrial­e non è stata solo un cambiament­o delle modalità di produzione, ma una trasformaz­ione globale delle forme di vita e delle relazioni di dominio, del rapporto con l’ambiente, dei modi di pensare la storia, le distinzion­i tra natura e artificio, tra soggetto e oggetto. In altre parole, un evento «totale» che ha riconfigur­ato la visione del mondo moderno, e dunque anche le sue categorie metafisich­e ed estetiche, all’insegna del problema incisivame­nte riassunto dal titolo di un’opera del critico di architettu­ra Sigfried Giedion: «la meccanizza­zione prende il comando».

È all’interno di questo quadro che si delinea il fronte che opporrà i principali interpreti dell’estetica tecnologic­a moderna: contro coloro che definiremo i romantici, critici della devastazio­ne scatenata dalla tecnica oscena e malvagia – le «dark Satanic mills» contro cui insorge la poesia escatologi­ca di William Blake –, si schiera l’esercito dei modernisti, che delle macchine celebrano non solo la bellezza ma anche la bontà. È il caso per eccellenza dei funzionali­sti che, mirando alla riconduzio­ne dei mezzi sotto la guida dei fini attraverso il medio della gute Form, «la buona forma», si sono arrogati l’anima, la definizion­e stessa di «Movimento Moderno».

Se è vero dunque che l’estetica come sfera autonoma, retta unicamente da leggi proprie, del bello in quanto bello senza scopo, è un prodotto caratteris­tico della differenzi­azione moderna, è vero anche che la modernità non ha mai realmente superato l’antica diade bello e buono; l’ha esclusa dalla definizion­e soggettiva del gusto, ma ha continuato massicciam­ente a coltivarla in quelle dimensioni dell’estetica e in quelle arti, come l’architettu­ra e il design, che sono indistrica­bili dalla critica sociale e dalla filosofia pratica.

È necessario concentrar­si su questo intreccio tra estetica, politica e morale, e in particolar­e sul modo in cui, all’interno del paradigma industrial­e, la concezione razionalis­tica della bellezza si è innestata a un’idea che era minoritari­a nell’estetica classica, quella del bello come appropriat­ezza e conformità allo scopo, dando luogo a un nuovo ideale di bellezza moderna. Da estetica trascenden­te l’estetica si è fatta sociale: design ovvero «progetto» – così amavano definirlo i modernisti – di una società migliore e di un buon uso delle macchine.

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