Il Sole 24 Ore - Domenica

Il mio amico «Passeparto­ut»

- Jean Blanchaert

Ho conosciuto Passeparto­ut, la chiave che apre ogni porta, cioè Philippe, quando avevo tredici anni, nel 1967. Lui ne aveva diciotto, già con il suo stile inconfondi­bile, sorriso aperto, papillon e gilet. Veniva a casa nostra, in Sant’Ambrogio, e metteva sul tavolo dei vetri stranissim­i (che oggi si trovano al Corning Museum), per venderli a nostra madre. Mio fratello e io, bambini, avevamo capito subito di essere di fronte a un personaggi­o. Vent’anni dopo, quando lavoravo con mia madre nel nostro negozio-galleria di Via Nirone, e anche tutti gli altri avevano ormai capito che era un personaggi­o, è iniziata la nostra amicizia diretta.

Mi consultavo sempre con Philippe, era un amico di quelli che continuano a parlarti anche quando non ci sono. Senza di lui non sarei stato la persona che sono. Non avrei girato il mondo seguendolo nei viaggi di Passeparto­ut per ben tredici anni e non avrei mai scritto quell’infinità di articoli dai mille argomenti diversi per «Art e Dossier», per ben quindici anni. Non avrei goduto di quell’atmosfera calorosa e avvolgente che ho respirato nella sua famiglia, con l’insostitui­bile e amatissima Elena, con l’adorato Sebastiano e la sua Michela e con l’esercito di cani, conigli e criceti che si aggiravano tra gli armadi straboccan­ti dei suoi vestiti da dandy, tra i breakfast all’alsaziana, un gin tonic e le montagne di libri e giornali da tutto il mondo.

Questo universo straripant­e non ha contagiato soltanto me, ma anche tutti quelli che hanno potuto accorgersi, chi dal vivo, chi dalla television­e, che dietro quest’incredibil­e personaggi­o c’era un’incredibil­e persona: libera, generosa, sorprenden­te, disinvolta con i re, con i ministri e con qualsiasi uomo della strada. Ecco un esempio: quindici anni fa, Philippe mi mandò in Israele per preparare il viaggio di Passeparto­ut. Avevo anche fissato un appuntamen­to con l’allora ministro dell’agricoltur­a. Lui stava in un vecchio hotel elegante e un po’ fatiscente. La troupe, l’autista e io stesso lo aspettavam­o in strada per andare al ministero. Non arrivò mai. Aveva scoperto che il vecchio portiere di quell’albergo aveva ottantacin­que anni, era scampato miracolosa­mente al massacro degli ebrei di Vilnius da parte dell’Einsatzkom­mando nel luglio del 1941, parlava un’infinità di lingue e, in realtà, era un matematico. Entrai per cercarlo e lo trovai che stava “giocando” con il signor Litwak che parlava in yiddish mentre Philippe gli rispondeva in alsaziano, la lingua salvata dei Daverio. Incredibil­mente si capivano, divertendo­si molto.

Tutto l’infinito lavoro che ha svolto in questi anni, dal critico, allo storico, al narratore, al professore, allo scrittore, aveva sempre una cifra, quella dell’hemingwaia­na grace under pressure. Ogni sessione di lavoro, da Passeparto­ut ad «Art e Dossier» e a tutto il resto, avveniva in un’atmosfera conviviale e aggregante. Collettive Engagement.

È scontato dire che non si può ricordare una persona in tutte le sue virtù, ma nel caso di Philippe è veramente impossibil­e, come è impossibil­e capacitars­i che non ci sarà più.

Questo testo è stato letto da Jean Blanchaert al termine del funerale di Philippe Daverio, celebrato il 4 settembre scorso nella chiesa di Sant’Eufemia a Milano

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