Grattacieli in miniatura
La storia e le funzioni degli edifici in scala ridotta: dagli oggetti votivi dell’antichità ai moderni prototipi usati per testare la stabilità delle grandi strutture
Chiamarli «modellini» non rende giustizia al loro insostituibile ruolo nella storia dell’architettura e dell’ingegneria. Quei piccoli (ma anche grandi) manufatti che riproducono in scala ridotta edifici, quartieri o infrastrutture costituiscono da secoli un formidabile strumento di rappresentazione e prefigurazione del mondo esistente o immaginato, e sono dotati di molteplici significati che tre volumi di recente pubblicazione mettono bene in luce.
Il primo, scritto da Matthew Mindrup e intitolato The Architectural Model (MIT Press), è un’opera considerevole per orizzonti e informazioni. L’autore traccia una panoramica ampia e convincente preferendo alla traiettoria cronologica una scansione tematica, in cui si intrecciano casi di epoche diverse, dall’Antico Egitto a oggi. Nella prima parte, dedicata ai modelli di strutture esistenti, si comprende ad esempio come essi siano stati - prima che congegni tecnici - oggetti votivi, tributi funerari, feticci, semplici souvenir o simboli tangibili di un potere politico. All’inizio del primo millennio, modellini di palazzi e città venivano portati in trionfo nelle parate per dare concreta immagine alle conquiste militari, mentre in molte rappresentazioni l’edificio in miniatura è sorretto dal signore di turno, come Giotto dipinse Enrico degli Scrovegni nell’omonima cappella.
È però nelle mani degli architetti che il modello (chiamato spesso maquette, da «macchietta», cioè un rapido abbozzo) assume la più ampia rosa di significati, offrendo - in parallelo al disegno, ma in tre dimensioni - la replica maneggevole del contesto da ripensare, il simulacro utile alla formazione delle maestranze o all’istruzione degli studenti, e soprattutto una prima oggettivazione di un’idea ancora acerba da mettere in discussione, trasformare, arricchire, interrogare.
I modelli possono essere accrocchi abborracciati da gettare al vento o raffinati capolavori in miniatura: dipende dalla visione che li ha creati. Ogni epoca ha difatti il suo modello, così legato alla cultura coeva da diventarne forma simbolica. Nel De re aedificatoria, Leon Battista Alberti metteva in guardia dalle seduzioni di modelli troppo realistici e decorati: meglio farne di semplici e spogli, così da indicare solo le lineamenta di una forma da costruire, e dunque un’architettura dalla geometria essenziale. Avvertirà invece Vincenzo Scamozzi: «i modelli sono a somiglianza de’ piccioli uccelli, che non si conoscono se sono maschi, o femmine; ma fatti poi grandicelli si conoscono per Aquile, o per Corvi; è perciò assai facil cosa che i padroni ne siano ingannati». Attenti insomma alle illusioni generate dal cambio dimensionale, ma anche ai valori nascosti. Nell’Ottocento, la casa delle bambole divenne un dispositivo per l’educazione della morale e del gusto delle giovani fanciulle, in preparazione al governo della casa reale.
All’inizio del Novecento, la rottura concettuale, tecnica ed epistemologica portata dalle avanguardie si è riversata anche sulla pratica del modello, ad esempio accogliendo l’impiego dadaista del collage, l’objet trouvé, i giochi dei bambini e soprattutto conferendogli un valore autonomo, poetico e artistico, indipendente da ciò che rappresenta. Il passaggio da «surrogato» a opera «libera» ha quindi aperto numerose ricerche nei decenni successivi, di pari passo - specie negli anni Sessanta e Settanta - con la rivendicazione di un’autonomia linguistica per l’architettura. Un esempio è il lavoro di Peter Eisenman, le cui prime opere sono in pratica dei modelli in scala reale. Si ribalta così il ruolo subordinato del modello rispetto al prototipo, della copia rispetto all’originale, oggi accentuato dall’impiego di tecnologie come la stampa 3D che creano maquette ma potrebbero costruire edifici veri e propri. Ad ogni materiale corrisponderebbe poi uno stile: modelli in cera rossa da scavare per le fantasie barocche di Borromini, cartoncino bianco per l’etereo International Style degli anni Trenta, e così via.
Meno ambizioso - ma con un generoso apparato iconografico - è il volume edito da LetteraVentidue (Modelli. Costruire lo spazio), che si concentra sul ruolo dei modelli nel processo generativo dell’architettura contemporanea, scegliendo i casi di Chipperfield, Eisenman, Fujimoto, Gehry, Herzog & de Meuron, MVRDV e Rem Koolhaas. Per tutti loro, la maquette è in diversa misura strumento di lavoro e di distinzione professionale (come il compasso una volta), come ben traspare dalle immagini dei loro uffici con schiere di modellini in bella mostra.
Il terzo volume, curato da Bill Addis (Physical Models: Their historical and current use in civil and building engineering design), è invece una monumentale indagine - 29 autori per 39 capitoli - dedicata agli speciali modelli utilizzati per verificare empiricamente la firmitas e la stabilità delle grandi strutture, prima del confronto con il mondo reale. Nelle sue 1.114 pagine si trovano esperimenti su dighe, torri, coperture, viadotti (molte le opere italiane, tra cui il grattacielo Pirelli, il Ponte Morandi, il ponte sul Basento) e un’interessante antologia con gli scritti dedicati all’ingegneria dei modelli e alle sue leggi scientifiche da figure come Vitruvio, Galileo ed Eulero.
Tra le molte osservazioni che questi libri stimolano, una centrale riguarda il bisogno di tangibilità e concretezza che, nonostante la diffusione ormai capillare di simulazioni virtuali e realtà aumentata, perdura nella pratica del progetto. Difficile è infatti sostituire l’esperienza che un modello «fisico» - da toccare, girarci attorno, modificare con rapidi gesti - può offrire al nostro sistema percettivo, entrando in risonanza con una lunga tradizione culturale. Ciò non significa rigettare le mirabilie che la rivoluzione digitale mette sul tavolo ogni giorno, anzi: come dimostrano molte delle più recenti esperienze descritte, la strada è quella di un reciproco supporto e di una sinergia di mezzi e prospettive, nello spasmodico tentativo di colmare la distanza tra idea e realtà.
Gli architetti li chiamano anche
«maquette» da macchietta cioè rapido abbozzo