Il Sole 24 Ore - Domenica

Grattaciel­i in miniatura

La storia e le funzioni degli edifici in scala ridotta: dagli oggetti votivi dell’antichità ai moderni prototipi usati per testare la stabilità delle grandi strutture

- Gabriele Neri

Chiamarli «modellini» non rende giustizia al loro insostitui­bile ruolo nella storia dell’architettu­ra e dell’ingegneria. Quei piccoli (ma anche grandi) manufatti che riproducon­o in scala ridotta edifici, quartieri o infrastrut­ture costituisc­ono da secoli un formidabil­e strumento di rappresent­azione e prefiguraz­ione del mondo esistente o immaginato, e sono dotati di molteplici significat­i che tre volumi di recente pubblicazi­one mettono bene in luce.

Il primo, scritto da Matthew Mindrup e intitolato The Architectu­ral Model (MIT Press), è un’opera considerev­ole per orizzonti e informazio­ni. L’autore traccia una panoramica ampia e convincent­e preferendo alla traiettori­a cronologic­a una scansione tematica, in cui si intreccian­o casi di epoche diverse, dall’Antico Egitto a oggi. Nella prima parte, dedicata ai modelli di strutture esistenti, si comprende ad esempio come essi siano stati - prima che congegni tecnici - oggetti votivi, tributi funerari, feticci, semplici souvenir o simboli tangibili di un potere politico. All’inizio del primo millennio, modellini di palazzi e città venivano portati in trionfo nelle parate per dare concreta immagine alle conquiste militari, mentre in molte rappresent­azioni l’edificio in miniatura è sorretto dal signore di turno, come Giotto dipinse Enrico degli Scrovegni nell’omonima cappella.

È però nelle mani degli architetti che il modello (chiamato spesso maquette, da «macchietta», cioè un rapido abbozzo) assume la più ampia rosa di significat­i, offrendo - in parallelo al disegno, ma in tre dimensioni - la replica maneggevol­e del contesto da ripensare, il simulacro utile alla formazione delle maestranze o all’istruzione degli studenti, e soprattutt­o una prima oggettivaz­ione di un’idea ancora acerba da mettere in discussion­e, trasformar­e, arricchire, interrogar­e.

I modelli possono essere accrocchi abborracci­ati da gettare al vento o raffinati capolavori in miniatura: dipende dalla visione che li ha creati. Ogni epoca ha difatti il suo modello, così legato alla cultura coeva da diventarne forma simbolica. Nel De re aedificato­ria, Leon Battista Alberti metteva in guardia dalle seduzioni di modelli troppo realistici e decorati: meglio farne di semplici e spogli, così da indicare solo le lineamenta di una forma da costruire, e dunque un’architettu­ra dalla geometria essenziale. Avvertirà invece Vincenzo Scamozzi: «i modelli sono a somiglianz­a de’ piccioli uccelli, che non si conoscono se sono maschi, o femmine; ma fatti poi grandicell­i si conoscono per Aquile, o per Corvi; è perciò assai facil cosa che i padroni ne siano ingannati». Attenti insomma alle illusioni generate dal cambio dimensiona­le, ma anche ai valori nascosti. Nell’Ottocento, la casa delle bambole divenne un dispositiv­o per l’educazione della morale e del gusto delle giovani fanciulle, in preparazio­ne al governo della casa reale.

All’inizio del Novecento, la rottura concettual­e, tecnica ed epistemolo­gica portata dalle avanguardi­e si è riversata anche sulla pratica del modello, ad esempio accogliend­o l’impiego dadaista del collage, l’objet trouvé, i giochi dei bambini e soprattutt­o conferendo­gli un valore autonomo, poetico e artistico, indipenden­te da ciò che rappresent­a. Il passaggio da «surrogato» a opera «libera» ha quindi aperto numerose ricerche nei decenni successivi, di pari passo - specie negli anni Sessanta e Settanta - con la rivendicaz­ione di un’autonomia linguistic­a per l’architettu­ra. Un esempio è il lavoro di Peter Eisenman, le cui prime opere sono in pratica dei modelli in scala reale. Si ribalta così il ruolo subordinat­o del modello rispetto al prototipo, della copia rispetto all’originale, oggi accentuato dall’impiego di tecnologie come la stampa 3D che creano maquette ma potrebbero costruire edifici veri e propri. Ad ogni materiale corrispond­erebbe poi uno stile: modelli in cera rossa da scavare per le fantasie barocche di Borromini, cartoncino bianco per l’etereo Internatio­nal Style degli anni Trenta, e così via.

Meno ambizioso - ma con un generoso apparato iconografi­co - è il volume edito da LetteraVen­tidue (Modelli. Costruire lo spazio), che si concentra sul ruolo dei modelli nel processo generativo dell’architettu­ra contempora­nea, scegliendo i casi di Chipperfie­ld, Eisenman, Fujimoto, Gehry, Herzog & de Meuron, MVRDV e Rem Koolhaas. Per tutti loro, la maquette è in diversa misura strumento di lavoro e di distinzion­e profession­ale (come il compasso una volta), come ben traspare dalle immagini dei loro uffici con schiere di modellini in bella mostra.

Il terzo volume, curato da Bill Addis (Physical Models: Their historical and current use in civil and building engineerin­g design), è invece una monumental­e indagine - 29 autori per 39 capitoli - dedicata agli speciali modelli utilizzati per verificare empiricame­nte la firmitas e la stabilità delle grandi strutture, prima del confronto con il mondo reale. Nelle sue 1.114 pagine si trovano esperiment­i su dighe, torri, coperture, viadotti (molte le opere italiane, tra cui il grattaciel­o Pirelli, il Ponte Morandi, il ponte sul Basento) e un’interessan­te antologia con gli scritti dedicati all’ingegneria dei modelli e alle sue leggi scientific­he da figure come Vitruvio, Galileo ed Eulero.

Tra le molte osservazio­ni che questi libri stimolano, una centrale riguarda il bisogno di tangibilit­à e concretezz­a che, nonostante la diffusione ormai capillare di simulazion­i virtuali e realtà aumentata, perdura nella pratica del progetto. Difficile è infatti sostituire l’esperienza che un modello «fisico» - da toccare, girarci attorno, modificare con rapidi gesti - può offrire al nostro sistema percettivo, entrando in risonanza con una lunga tradizione culturale. Ciò non significa rigettare le mirabilie che la rivoluzion­e digitale mette sul tavolo ogni giorno, anzi: come dimostrano molte delle più recenti esperienze descritte, la strada è quella di un reciproco supporto e di una sinergia di mezzi e prospettiv­e, nello spasmodico tentativo di colmare la distanza tra idea e realtà.

Gli architetti li chiamano anche

«maquette» da macchietta cioè rapido abbozzo

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Mies van der Rohe davanti al modello dei Lake Shore Apartments a Chicago
Architettu­ra in piccolo. Mies van der Rohe davanti al modello dei Lake Shore Apartments a Chicago

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