Il Sole 24 Ore - Domenica

Questa nostra carne, tempio dello Spirito

Dalla Genesi alle Lettere apostolich­e, un lungo excursus dedicato alla grande importanza data alla fisicità corporea nelle Sacre Scritture, culminante nel trionfo della resurrezio­ne di Gesù Cristo

- Gianfranco Ravasi

Come è noto, è stato un libro rimasto in cantiere per tutta la vita del suo autore, a partire dal 1855 fino al «letto di morte» nel 1892, come di solito viene definita l’ultima edizione: stiamo parlando della raccolta poetica Foglie d’erba di Walt Whitman. C’è in quei canti un verso che mi ha sempre impression­ato, tanto da ricordarlo a memoria senza esitazione: «Se c’è qualcosa di sacro, il corpo umano è sacro». Un pensiero che s’intreccia spontaneam­ente con un’altra asserzione nata dalla penna di un personaggi­o molto diverso, Nietzsche, che negli anni 1883-85 stendeva l’opera della sua maturità, Così parlò Zarathustr­a, ove si legge: «Vi è più ragione nel tuo corpo che nella tua migliore saggezza». Ma se vogliamo risalire a una sorgente ben più antica e radicale, ecco l’apostolo Paolo che non esitava a interpella­re i cristiani di Corinto così: «Non sapete che il vostro corpo è tempio dello Spirito Santo, che è in voi?» (1Corinzi 6,19).

Ecco, dunque, il paradosso: quella corporeità così carnale e muscolare, materiale e sessuale, diventa segno di sacralità, di sapienza, persino di divinità, anche perché l’apice della fede cristiana è nell’affermazio­ne provocator­ia dell’inno-prologo del quarto Vangelo:

«In principio era il Verbo e il Verbo era Dio... E il Verbo carne divenne» (Giovanni 1,1.14). Anzi, il vocabolo latino corpus-corpo - che metaforica­mente applichiam­o anche a raccolte di testi scritti o a gruppi sociali (i corpi militari o le corporazio­ni, ad esempio) - ha probabilme­nte nella sua matrice etimologic­a l’indoeurope­o krp-/krache significa «bellezza, forma». Quando si parla di corporeità si dovrebbe, allora, trattare innanzitut­to non tanto di fisicità, di biologia, di medicina, di sessuologi­a né di carnalità, bensì di uno dei simboli epifanici dello spirito.

Non stupisce, allora, che la Bibbia si disinteres­si quasi totalmente dell’anima, ponendosi in alternativ­a antropolog­ica rispetto alla classicità greca, per attestarsi proprio sul corpo, al punto tale che il vocabolo ebraico nefesh, che la versione greca antica dei Settanta per 680 volte su 754 occorrenze rende con psychê, in realtà indica l’«essere vivente» nella sua compattezz­a esistenzia­le, interiore e materiale, vitale e mortale. Per questo, senza esitazione, Tertullian­o conierà il motto latino assonante caro salutis cardo, «cardine della salvezza è la carne», mentre l’eucaristia è il «corpo di Cristo», la Chiesa è ugualmente suo corpo (sempre stando a Paolo) e l’escatologi­a non è l’immortalit­à dell’anima ma la risurrezio­ne della carne/corpo. Due vocaboli che, sempre per stare all’indoeurope­o, si apparentan­o perché le radicali krp-/kra- di corpo e kreu- di carne alla fine sbocciano nel creare latino.

Questa lunga premessa-excursus, che potrebbe dilatarsi a dismisura, è destinata a orientare verso un quaderno monografic­o, molto suggestivo, di una rivista intitolata «Parola Spirito e Vita» (laddove, però, lo Spirito non è l’anima ma la divinità): il suo numero 81, che è in realtà un volume a sé stante e, quindi, acquistabi­le a parte senza abbonament­o generale, s’intitola appunto Il Corpo. Si noti la maiuscola, nella linea della nostra consideraz­ione preliminar­e. La trama è diacronico-sincronica al tempo stesso, perché parte dal polo primigenio della Bibbia - ossia dai racconti della creazione della Genesi (cc. 1-3), dal corpo che diventa oracolo e simbolo nei profeti, dal corpo orante, dolorante e corruttibi­le, dal corpo di Gesù, medico-salvatore, dal corpo sacrifical­e e risorto di Cristo - per approdare fino al polo ultimo della psicologia contempora­nea. Naturalmen­te entro questi due estremi si distende l’arco della millenaria vicenda cristiana che si è lasciata affascinar­e dalla «spirituali­tà» greca, fino all’ascesi fustigatri­ce del «corpo di peccato» ma che ha registrato in questo spettro cromatico teologico pure ben altri colori.

Come non pensare a san Francesco e al suo Cantico delle creature o al Francesco papa che, sulla scia evangelica, definisce i poveri e gli ultimi «carne di Cristo», mentre i martiri cristiani - questa volta nel solco anche di san Paolo - offrivano «i loro corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio» (Romani 12,1)? Lasciamo ai lettori di quel fascicolo di ricomporre questo ritratto del Corpo, che forse abbiamo scoperto nella sua fisicità simbolica proprio attraverso la pandemia del Covid-19, persino al livello estremo rappresent­ato dalle salme che non erano più «corpi» venerati e amati, ma solo cadaveri. Con buona pace del Pasolini della Supplica a mia madre, non è possibile avere solo «un’infinita fame d’amore di corpi senz’anima», perché le due componenti sono inscindibi­li in chi ama veramente. Con Péguy possiamo, perciò, usare senza imbarazzo l’ossimoro «anima carnale», confessand­o con Turoldo: «Inquieta anima mia quasi / carne... Egli [Dio] non è lontano, / è nel tuo mare di sangue».

Abbiamo già accennato all’immagine paolina della comunità cristiana come «corpo di Cristo» (almeno sei volte ritorna questo tema nel suo epistolari­o). È proprio con una di queste asserzioni - «noi siamo, benché molti, un solo corpo» (1Corinzi 10,17) - che Romano Penna, uno dei maggiori neotestame­ntaristi a livello internazio­nale, intesta il suo saggio, frutto di un approccio e di una ricerca sempre rigorosa ma dal dettato altrettant­o limpido. Il cuore della sua analisi è proteso verso l’unità di questo corpo partendo da una componente che può sembrare a molti paradossal­e: «Il Gesù terreno, da laico com’era non ha fondato in senso letterale nessun sacerdozio, anche perché non ne parla mai. È stata piuttosto la fede pasquale che, approfonde­ndo il mistero da lui vissuto fino all’ultimo, ha visto ed evidenziat­o in Gesù Cristo l’esercizio di un nuovo tipo di sacerdozio senza paragoni».

È la stessa Lettera agli Ebrei, sulla base di una comparazio­ne col sacerdozio ebraico, di sua natura genealogic­o ed ereditario (legato com’era all’appartenen­za tribale levitica), che dichiara senza imbarazzo: «Se Gesù fosse sulla terra, non sarebbe neppure sacerdote... È noto, infatti, che il Signore nostro è germogliat­o dalla tribù di Giuda, e di essa Mosè non disse nulla riguardo al sacerdozio» (8,4 e 7,14). Altrettant­o forti sono state le parole di papa Francesco: «Tutti facciamo il nostro ingresso nella Chiesa come laici. Nessuno è stato battezzato prete o vescovo. Ci hanno battezzati laici ed è un segno indelebile che nessuno potrà mai cancellare». Questo, però, non esclude che esistano dei «ministeri» specifici, a partire da quelli di fondazione come gli apostoli o di servizio come i «diaconi». Essi, però, non devono regredire alla tipologia rituale anticotest­amentaria o a quella pagana della classicità greco-romana.

Lo studio di Penna, che si distende fino a raggiunger­e i primi secoli cristiani, è dedicato a delineare proprio i due profili costitutiv­i. Da un lato, è in causa la laicità, presente già nel fondatore Cristo, e che si esprime nei molteplici carismi dei fedeli delle varie comunità. Essa si manifesta sia nel culto domestico e non templare, sia nella stessa morale paolina segnata da una struttura non sacrale (legge e libertà, coscienza, etica generale, nesso con la politica). D’altro lato, abbiamo il sacerdozio cristiano che ha il suo archetipo esclusivo nel «sommo sacerdote» Gesù, un prototipo certamente non genetico né rituale. E che è partecipat­o anche nella dimensione comunitari­a e individual­e dell’intera Chiesa, «corpo di Cristo». Un sacerdozio che ha, però, una sua identità e specificit­à ministeria­le in alcuni soggetti attraverso un’ordinazion­e con l’imposizion­e delle mani. Qui il discorso s’allarga anche nella Chiesa successiva con l’elaborazio­ne di ulteriori precisazio­ni teologiche e di contrasseg­ni come il celibato o la veste sacra.

Sintetizza­to così, il discorso sembra fin scontato. In realtà le pagine di Penna, fittamente documentat­e, aprono squarci sorprenden­ti e, alla fine, si inquadrano nel dibattito sempre vivace del contrappun­to tra fede, religione, laicità, secolarità, purtroppo spesso pronti a degenerare in clericalis­mo e laicismo, sacralismo e secolarism­o. Alla radice c’è sempre quella scissione esclusivis­tica tra anima e corpo, tra spirito e carne da cui siamo partiti.

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Paul Rubens Incredulit­à di San Tommaso (1613-1615). Anversa, Museo Reale di Belle Arti
Corpo di Cristo. Pieter Paul Rubens Incredulit­à di San Tommaso (1613-1615). Anversa, Museo Reale di Belle Arti

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