Note per una sceneggiatura
Hollywood raramente forma i compositori ma li ingaggia dalle periferie del mondo: dall’islandese Ingveldardóttir Guðnadóttir ai nostri Theo Teardo e Diego Stocco
Si chiama Hildur Ingveldardóttir Guðnadóttir, è islandese e suona il violoncello, la compositrice di musica per immagini più détournate, innovativa e indipendente del cinema hollywoodiano. Ha vinto il Golden Globe (prima compositrice nella storia) l’Emmy, il Grammy e l’Oscar con Joker di Todd Phillips, con una colonna sonora (composta da musica e sound design) pervasiva. E che, addirittura, è arrivata ad ispirare la mise en scène del film e si è nutrita, nutrendolo, degli abissi esistenziali del personaggio interpretato da Joaquim Phoenix. Come ci è riuscita? «Ho avvertito l’anima di Arthur», il personaggio protagonista. Tutto qui. In questo senso, la sua musica (puro sound design elettroacustico in stile ECM, ma anche musica sacra antica, elettronica di ricerca e folklore islandese) è anche un esperimento su coscienza, percezione di sé e pattern cognitivi degno delle neuroscienze; praticato con successo anche con la serie tv Chernobyl, per la quale si è immedesimata, vestendone letteralmente gli abiti, con i protagonisti della tragedia nucleare ucraina.
Va detto che la grande musica per il cinema arriva da tempo dalla frontiera e non dalle Capitali dell’Impero dell’Industria cinematografica. Questione d’ispirazione, di formazione, di libertà. Ma attenzione a non affidarsi all’equazione scontata, da complottismo da bar, del cinema indipendente vs cinema blockbuster. Il mainstream (Hollywood) non uccide la creatività, anzi. Semplicemente non la forma, non la cura, non la crea; lascia che sia la frontiera a farlo, poi si dedica allo shopping. Succede anche con il nostro Paese (insieme frontiera e periferia), non solo in campo musicale.
Un altro esempio, il genio polacco appena scomparso Krzysztof Eugeniusz Penderecki (una sensibilità e un timbro sonoro catapultati dal XVI° secolo), che abbiamo conosciuto attraverso David Lynch e la serie Black Mirror. O ancora il regista e compositore, sempre islandese, Jóhann Jóhannsson, ricordato all’ultima Berlinale con l’ultimo film sperimentale (un documentario) Last and first man, narrato da Tilda Swinton. Poi c’è la grande fabbrica dei suoni, la Remote Control Productions (Los Angeles, questa volta) di Hans Zimmer, a capo del dipartimento musicale dello studio cinematografico DreamWorks e di una nutrita squadra di professionisti (cioè compositori); tra loro, il rovighése, Diego Stocco, virtuoso del burning piano, a cui prima si dà fuoco e poi si suona trasmettendo quel tocco di brace e corde ossidate che fa - fuor da ogni ironia - la differenza. Da anni ormai, original score, soundtrack, film theme song e sound design (ma ad Hollywood hanno ancora specialisti per ciascun segmento) hanno accorciato le distanze reciproche, facendo della musica per il cinema musica con il cinema. Così, un songwriter come Daniel Blumberg può firmare nel film ora a Venezia The World to Come di Mona Fastvold una splendida colonna sonora di canzoni folk.
La musica per il cinema forse sta giungendo al suo Viaggio al termine della notte (anche il titolo dell’omaggio a Céline e al cinema che Elio Germano e il compositore e sound designer Teho Teardo stanno portando nei teatri e festival in queste settimane); non più ancella delle immagini o della sceneggiatura ma nemmeno corpo estraneo appiccicato al film per emozionare nei titoli di coda. Come i sentimenti, la musica è una cosa seria, va maneggiata con cura. Nel saggio Sul Cinema (il Saggiatore, 2019), Federico Fellini, che ha avuto nei decenni un sodalizio con Nino Rota, offre una inedita testimonianza sul potere della musica nel cinema: «Al di fuori del mio lavoro la musica preferisco non sentirla. Mi condiziona, mi allarma, ne vengo posseduto. Mi difendo rifiutandola, scappando via come un ladro dalle occasioni. Il fatto è che la musica mi immalinconisce, mi carica di rimorsi, è come una voce ammonitrice che ti strugge perché ti ricorda una dimensione di armonia, di pace, di compiutezza, dalla quale sei stato escluso, esiliato. La musica è crudele».
Il suono evoca emozioni che non passano dagli occhi e possono arrivare direttamente allo stomaco. Le idee, scrive il filosofo Gilles Deleuze nell’antico saggio, Cos’è l’atto di Creazione, sono «inseparabili dal modo d’espressione»; un’idea al cinema comprende la visione delle immagini, la narrazione, il suono, la musica. Che non è un ornamento ma, come ci hanno mostrato Sergio Leone e Ennio Morricone, parte della trama dell’abito filmico. A questo proposito, l’opera di David Lynch, che da sempre compone l’idea musicale dei suoi film, è un’ottima scuola di composizione; nell’intervista autobiografica Io vedo me stesso (a cura di Chris Rodley, ancora per il Saggiatore, 206) dice: «la musica che Angelo Badalamenti scrive per me è ciò che chiamo legna da ardere, in seguito la sego, la suono, inserisco nuove cose». E se è vero che, al netto dei sintetizzatori, «non c’è niente di meglio di un’orchestra di Praga, spira una certa aria est-europea», proviamo a navigare tra le dissonanze e le armonie dei nuovi compositori per immagini, sempre meno venditori di emozioni e sempre più co-registi di storie altrui, attribuendo loro una grande responsabilità: la loro musica non è l’abito, ma l’anima, la sceneggiatura invisibile di un film; ci mostra da che parte stare e la frontiera alla quale apparteniamo.