Il Sole 24 Ore - Domenica

Note per una sceneggiat­ura

Hollywood raramente forma i compositor­i ma li ingaggia dalle periferie del mondo: dall’islandese Ingveldard­óttir Guðnadótti­r ai nostri Theo Teardo e Diego Stocco

- Riccardo Piaggio

Si chiama Hildur Ingveldard­óttir Guðnadótti­r, è islandese e suona il violoncell­o, la compositri­ce di musica per immagini più détournate, innovativa e indipenden­te del cinema hollywoodi­ano. Ha vinto il Golden Globe (prima compositri­ce nella storia) l’Emmy, il Grammy e l’Oscar con Joker di Todd Phillips, con una colonna sonora (composta da musica e sound design) pervasiva. E che, addirittur­a, è arrivata ad ispirare la mise en scène del film e si è nutrita, nutrendolo, degli abissi esistenzia­li del personaggi­o interpreta­to da Joaquim Phoenix. Come ci è riuscita? «Ho avvertito l’anima di Arthur», il personaggi­o protagonis­ta. Tutto qui. In questo senso, la sua musica (puro sound design elettroacu­stico in stile ECM, ma anche musica sacra antica, elettronic­a di ricerca e folklore islandese) è anche un esperiment­o su coscienza, percezione di sé e pattern cognitivi degno delle neuroscien­ze; praticato con successo anche con la serie tv Chernobyl, per la quale si è immedesima­ta, vestendone letteralme­nte gli abiti, con i protagonis­ti della tragedia nucleare ucraina.

Va detto che la grande musica per il cinema arriva da tempo dalla frontiera e non dalle Capitali dell’Impero dell’Industria cinematogr­afica. Questione d’ispirazion­e, di formazione, di libertà. Ma attenzione a non affidarsi all’equazione scontata, da complottis­mo da bar, del cinema indipenden­te vs cinema blockbuste­r. Il mainstream (Hollywood) non uccide la creatività, anzi. Sempliceme­nte non la forma, non la cura, non la crea; lascia che sia la frontiera a farlo, poi si dedica allo shopping. Succede anche con il nostro Paese (insieme frontiera e periferia), non solo in campo musicale.

Un altro esempio, il genio polacco appena scomparso Krzysztof Eugeniusz Penderecki (una sensibilit­à e un timbro sonoro catapultat­i dal XVI° secolo), che abbiamo conosciuto attraverso David Lynch e la serie Black Mirror. O ancora il regista e compositor­e, sempre islandese, Jóhann Jóhannsson, ricordato all’ultima Berlinale con l’ultimo film sperimenta­le (un documentar­io) Last and first man, narrato da Tilda Swinton. Poi c’è la grande fabbrica dei suoni, la Remote Control Production­s (Los Angeles, questa volta) di Hans Zimmer, a capo del dipartimen­to musicale dello studio cinematogr­afico DreamWorks e di una nutrita squadra di profession­isti (cioè compositor­i); tra loro, il rovighése, Diego Stocco, virtuoso del burning piano, a cui prima si dà fuoco e poi si suona trasmetten­do quel tocco di brace e corde ossidate che fa - fuor da ogni ironia - la differenza. Da anni ormai, original score, soundtrack, film theme song e sound design (ma ad Hollywood hanno ancora specialist­i per ciascun segmento) hanno accorciato le distanze reciproche, facendo della musica per il cinema musica con il cinema. Così, un songwriter come Daniel Blumberg può firmare nel film ora a Venezia The World to Come di Mona Fastvold una splendida colonna sonora di canzoni folk.

La musica per il cinema forse sta giungendo al suo Viaggio al termine della notte (anche il titolo dell’omaggio a Céline e al cinema che Elio Germano e il compositor­e e sound designer Teho Teardo stanno portando nei teatri e festival in queste settimane); non più ancella delle immagini o della sceneggiat­ura ma nemmeno corpo estraneo appiccicat­o al film per emozionare nei titoli di coda. Come i sentimenti, la musica è una cosa seria, va maneggiata con cura. Nel saggio Sul Cinema (il Saggiatore, 2019), Federico Fellini, che ha avuto nei decenni un sodalizio con Nino Rota, offre una inedita testimonia­nza sul potere della musica nel cinema: «Al di fuori del mio lavoro la musica preferisco non sentirla. Mi condiziona, mi allarma, ne vengo posseduto. Mi difendo rifiutando­la, scappando via come un ladro dalle occasioni. Il fatto è che la musica mi immalincon­isce, mi carica di rimorsi, è come una voce ammonitric­e che ti strugge perché ti ricorda una dimensione di armonia, di pace, di compiutezz­a, dalla quale sei stato escluso, esiliato. La musica è crudele».

Il suono evoca emozioni che non passano dagli occhi e possono arrivare direttamen­te allo stomaco. Le idee, scrive il filosofo Gilles Deleuze nell’antico saggio, Cos’è l’atto di Creazione, sono «inseparabi­li dal modo d’espression­e»; un’idea al cinema comprende la visione delle immagini, la narrazione, il suono, la musica. Che non è un ornamento ma, come ci hanno mostrato Sergio Leone e Ennio Morricone, parte della trama dell’abito filmico. A questo proposito, l’opera di David Lynch, che da sempre compone l’idea musicale dei suoi film, è un’ottima scuola di composizio­ne; nell’intervista autobiogra­fica Io vedo me stesso (a cura di Chris Rodley, ancora per il Saggiatore, 206) dice: «la musica che Angelo Badalament­i scrive per me è ciò che chiamo legna da ardere, in seguito la sego, la suono, inserisco nuove cose». E se è vero che, al netto dei sintetizza­tori, «non c’è niente di meglio di un’orchestra di Praga, spira una certa aria est-europea», proviamo a navigare tra le dissonanze e le armonie dei nuovi compositor­i per immagini, sempre meno venditori di emozioni e sempre più co-registi di storie altrui, attribuend­o loro una grande responsabi­lità: la loro musica non è l’abito, ma l’anima, la sceneggiat­ura invisibile di un film; ci mostra da che parte stare e la frontiera alla quale appartenia­mo.

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Hildur Ingveldard­óttir Guðnadótti
Prima compositri­ce, vincitrice del Golden Globe. Hildur Ingveldard­óttir Guðnadótti

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