Fondersi con la pantera della nevi
Per Sylvain Tesson tre questioni soltanto sono essenziali. Sapere chi sei, senza discorsi inutili: «Della pianta dico “È una pianta”, di me stesso dico “sono io”. E non dico nient’altro. Che altro c’è da dire?». Poi conoscere chiaramente dov’è la propria casa, il proprio posto al mondo: «la questione cruciale della vita. La più semplice, la più ignorata». E per il resto, viaggiare: «Che cosa è un vero viaggio? Una follia che ci ossessioni, che ci porti nel mito; insomma una deriva, un delirio traversato dalla Storia, dalla geografia, innaffiato di vodka, una sbandata alla maniera di Kerouac, qualcosa che a sera ci lasci senza fiato, in lacrime, in riva a un fosso. E con la febbre».
Sylvain Tesson è un grande scrittore di viaggio non ancora pienamente riconosciuto qui da noi. Ha vissuto per sei mesi in una capanna siberiana, sulle sponde del Lago Bajkal (Nelle foreste siberiane). Ha ripercorso la ritirata di Russia a bordo di un sidecar scassato di fabbricazione sovietica (Beresina. In sidecar con Napoleone). Ha raccontato la traversata a piedi della Francia rurale, dalla Provenza alla Normandia, per adempiere a un voto fatto dopo una disastrosa caduta notturna dal tetto di una casa, ubriaco fradicio (Sentieri neri). Può bastare?
Nel 2018 Tesson viene invitato dal fotografo naturalista Vincent Munier ad accompagnarlo in un viaggio invernale nell’altipiano di Qiangtang, in Tibet, alla ricerca degli ultimi esemplari della rarissima pantera delle nevi, potente, feroce, bellissima, incarnazione suprema di voluttà, libertà, autonomia. In un ambiente estremo, a cinquemila metri di quota, con temperature glaciali e neve polverosa spazzata dal vento, la prima lezione è di sopportazione, armati solo del Tao e del Buddha («Non agire! Non desiderare!»). Non è facile per un uomo del nostro mondo appostarsi e restare immobili al gelo per ore: «Com’è possibile, dopo aver viaggiato per migliaia di chilometri, approdare un giorno sull’orlo di un fossato, col mento nell’erba? … La sola volgarità che mi era concessa era quella di respirare. In città avevo preso l’abitudine di parlare in qualunque circostanza. Tacere era la cosa più difficile».
Ma la ricerca della pantera delle nevi, maestra di occultamento, è soprattutto una scuola di osservazione. Per riuscire a vederla bisogna farle la posta con infinita attenzione e pazienza, imparare a riconoscere la sua presenza da segni impercettibili. Come ha insegnato Ernst Jünger, per vedere la preda bisogna pensare come lei, farsi pantera. E così uomo e animale si fondono e riscoprono radici comuni perdute nella notte dei tempi: «Un giorno sapremo di esserci già conosciuti».
Gli animali osservati, osservano a loro volta, in un incrocio di sguardi: «Il giardino dell’uomo è popolato di presenze. Non sono ostili ma ci tengono d’occhio, niente di quello che facciamo sfugge alla loro attenzione. Gli animali sono i guardiani del giardino pubblico dove l’uomo gioca col cerchio credendosi il re».
Alla fine Tesson riesce a scorgere la pantera delle nevi, imparando a distinguerla dal paesaggio nel quale è perfettamente dissimulata. In quell’esperienza trova una fugace quanto profonda meraviglia («L’apparizione di un animale è la più bella ricompensa che la vita possa offrire all’amore per la vita») e insieme il ricordo di una donna amata e perduta e rimpianta.
Le ultime pagine di questo libro bello e profondo (e tuttavia per nulla noioso) approdano con naturalezza a una critica della modernità e dell’intervento umano nella natura, in favore di un nuovo credo: «Venerare ciò che è davanti a noi. Non aspettarsi niente. Ricordare molto. Guardarsi dalle speranze. … Accontentarsi del mondo. Lottare perché rimanga com’è». Non è rassegnazione, è amore.