Aedo ostinato fra greppi e favagelli
Il 26 febbraio il poeta Umberto Piersanti ha compiuto il suo ottantesimo compleanno. Arriva a questo traguardo con un bagaglio fitto di esperienze (poesia, prosa, cinema) e una sorprendente coerenza. È il cantore di una precisa geografia: l’area collinare della Cesane, interregno gentile tra le montagne marchigiane e la storica Urbino. Dentro questo paesaggio, da sempre, abita la sua immaginazione.
L’occasione degli auguri ci consente di festeggiare Campi d’ostinato amore, un libro “senile” solo nel senso più sereno e limpido che si possa dare a questo aggettivo. L’ostinazione è infatti nobilitata dal sentimento e si configura come bisogno di ripercorre, ancora una volta, tempi e stagioni, natura e storia, o di contrapporre civiltà (eroica e contadina) ai fantasmi di una guerra, che il poeta treenne ha appena sfiorato. In questa elegia Piersanti ha aggiunto una distanza ulteriore, guardando a se stesso come da fuori, un “tu” vocativo che si confonde con gli altri personaggi. Sdoppiato, l’io misura le varie età della vita in base a una loro speciale durata poetica. L’infanzia è allora «l’eterna epifania», suggellata dalla parabola cattolica della sua famiglia, fonte dei ricordi più tenaci. Lo spazio di questi anni è costellato di umili simboli, come i favagelli, la cui fioritura consente al poeta di immaginare la propria nascita: «tu scalci, / hai fretta / d’uscire in mezzo al gelo, / sai che la vita è oltre quel tepore, / altro non sai / e altro non ricordi, / inquieto come i favagelli» (Febbraio 1941). L’adolescenza, per contrasto, è l’età breve, l’illusione di una felicità piena, ha il volto di una fanciulla in corsa, forse una moderna Atalanta che gioca a Rubabandiera.
Tra questi due capitoli si dipanano momenti in cui più ardua è l’intermittenza amorosa, anche se il miracolo più manifestarsi improvviso: è il caso commovente del trittico per il figlio Jacopo, affetto da una grave forma di autismo; ma anche delle successive sezioni, intitolate rispettivamente In una selva separata e Vicende. Qui il “campo”, parola della tradizione e ricca di echi nel vocabolario del poeta, non è più apertura, sconfinamento felice dei ricordi, ma sinonimo di una dissolvenza. Si veda Distanze: «ho conosciuto gente / dei secoli lontani, / s’è persa dentro l’aria / nei campi più remoti». Ritorna il presagio che il campo sia anche un oltretomba; da lì si affacciano gli avi, richiamati da formule magiche («la madre dagli occhi chiari», «il padre dal volto magro»), e soprattutto da lì parla l’”Antico” per antonomasia, l’aedo già noto ai lettori di Piersanti, con il quale più evidente si fa la sovrapposizione. Nelle ultime vicende, infatti, vediamo il poeta approssimarsi al presente e diventare lui stesso una figura antica, mentre sosta fuori dal paesaggio perché il sentiero lungo gli amati greppi è ormai troppo faticoso: «più d’ogni ruga / che salga alla fronte, / più della vista / che s’appanna e confonde, / è il ginocchio che si piega / e non regge / a fare cupo il giorno / gelato il sangue» (Greppi).
La serpentina del ricordo combacia nei suoi punti estremi con la linea del racconto, non a caso tutte le poesie recano in calce una data e vanno dall’incipitaria Il passato è una terra remota (2015) alle poesie dell’epilogo composte durante La primavera balorda del covid. Sono versi che mantengono la stessa lieve armonia dei precedenti, ma in cui si è persa ogni vaghezza: «primavera brilla / a noi d’intorno, / ma i campi sono deserti / le piazze vuote».