Attenti al Gadda armato!
Le lettere e le fotografie dello scrittore, militare sul fronte del primo conflitto mondiale, documentano i variegati rapporti con i familiari. E la dura vita in divisa
Un racconto cronologico, l’intreccio di un ampio commento documentario oltre che linguistico, insieme alla narrazione visiva di un prezioso album fotografico, consentono di leggere l’epistolario in gran parte inedito raccolto nel libro La guerra di Gadda. Lettere e immagini (1915-1919), come il “romanzo” famigliare di Carlo Emilio Gadda negli anni della Grande Guerra. «La corrispondenza del periodo bellico ... evidenzia la variegata e complessa rete di rapporti sociali dei Gadda, i quali, malgrado il dissesto economico procurato dalle speculazioni del padre, Francesco Ippolito, nel campo dei bozzoli da seta e dalle spese per la costruzione della villa di Longone, rimasero bene introdotti nella società milanese, grazie al “gomitolo degli zii e delle zie, dei consuoceri e dei consobrini, dei figliocci e delle madrine, dei nipoti Pieri o Carli e delle Carlotte cognate, dei cugini secondi e terzi e delle cugine quarte e quinte”», scrive Arnaldo Liberati nella postfazione al volume. Nel libro, varia e si fa trama una conversazione che rende partecipe l’intera tribù.
Carlo Emilio Gadda e il fratello Enrico, di poco più giovane, sono convinti interventisti. Carlo Emilio viene chiamato alle armi nel giugno del 1915 e destinato a un Reggimento Granatieri, poi negli Alpini e nella Compagnia Mitragliatrici. Enrico arruolatosi volontario negli Alpini, approda all’Aeronautico. Hanno caratteri diversi. Enrico, l’Enricotto, è più sicuro di sé: è un aviere che gioca con il rischio. Carlo Emilio patisce di più il senso di solitudine ed entra in competizione con il fratello intraprendente e decorato: «la mia vita militare è stata purtroppo senza soddisfazioni e piena di contrarietà continue, dal giorno in cui lasciai la mia casa», confessa, «ho lavorato ma il mio lavoro non è apparso a nessuno: non ho avuto nessuna ricompensa neppur di parole e il mio contegno al fronte non mi ha servito a nulla. L’aver domandato ripetute volte di andarvi mi ha solo procurato il passaggio alle mitragliatrici, dove ora sono legato senza rimedio. Non ho avuto l’onore di una ferita, ma il tormento di una malattia che non mi lascia più». A dispetto della «disunione nello spazio», lontano dalla madre Adele e dalla sorella Clara, la famiglia si incontra e si salda nella corrispondenza, nel continuo «notiziario ... della vita militare», spesso con calchi danteschi o leopardiani, e ricordi manzoniani.
Carlo Emilio racconta le marce, le esercitazioni, la vita di campo, le cagnare dei commilitoni, la prigionia in Germania dopo Caporetto, «il poco riposo, il cibo grasso e strapazzone», «qualche mal di panciazza». È un narratore vivace della difficile convivenza negli «spazi ristretti» degli alloggiamenti nei quali, tra le mosche che «condensano l’atmosfera», si danno convegno e si mescolano «tutti i dialetti, tutti gli accenti d’Italia» e, grottescamente, le nazionali esibizioni di atletici pancioni sospesi e bloccati nell’aria: «i cinquanta ufficiali sarebbero il minor malanno: il peggio sono i rispettivi cinquanta attendenti che, pieni di maldestra premura, entrano, rovistano e cominciano a “fognare” come dice lo Stella, o a “ravanare” come diciamo noi, smovendo còfani, sacchi, coperte, cappotti bagnati fradici; preparando il pagliericcio al proprio padrone a prezzo di traslochi tormentosi. Tu vedi dei quarantenni arrampicarsi sugli steli che sostengono l’impalcatura, per raggiungere una coperta o un paio di scarpe-pantofole; vedi dei pancioni far mezz’ora di ginnastica in mutande per andare a dormire; e intanto la porta sbatacchia su e giù, aprendo la via alle raffiche gelate e al nuovo venuto. Un coro di maledizioni accoglie l’importuno, che spruzza neve da tutte le parti, e comincia a sua volta i preparativi per il riposo: in quel mentre cade l’ultima candela rimasta accesa e tutto piomba nell’oscurità più assoluta. I pancioni rimangono a mezz’aria, con una gamba su e l’altra giù».
Carlo Emilio ha un occhio da fotografo e si sente più a suo agio con un buon apparecchio fotografico tra le mani. La guerra di Gadda raccoglie parecchie istantanee del giovane militare che pur si lamenta di non essere ancora «un fotografo provetto». Non solo il narratore si aiuta con la fotografia, ma nelle lettere fa ricorso anche al disegno. Appunta sulla pagina un momento «infernale» vissuto in trincea durante un bombardamento e tratteggia sulla carta gli improvvisi spostamenti d’aria e l’uragano di pietre e schegge: «La trincea venne colmata e i pochi cadaveri vennero sepolti dalle esplosioni: blocchi di pietra, rovinio di travi di ferro, di pali, sassi, cenci; io ero presso una mitragliatrice, coi serventi, perfettamente calmo, perfettamente rassegnato; per ben tre volte rimanemmo immersi nello “spiriters” dell’esplosione; un 210 scoppiò sulla piazzola, schizzando pietre e schegge dovunque, nella posizione indicata dalla figura, che è un po’ convenzionale».
Le simulazioni sonore, «burubùm rururùm», «patapàm pùm putupùm» fanno di Gadda un rumorista che suggerisce recite buffe con il nemico, nonostante la pericolosità delle situazioni: «Quando ... un gruppo di tiratori loro comincia a sparacchiare contro qualche nostra pattuglia sul fondovalle, io prendo il tacpùm (così chiamiamo il fucile austriaco) e a ogni loro colpo rispondo con un colpo: è un battibecco esilarantissimo finché loro s’infuriano a sentirsi sparare col loro fucile e se la prendono con le pattuglie, scaricando giù qualche bomba a mano, sempre innocua. - Così, come due pappagalli appesi a due finestre di faccia, riempiamo la valle del nostro diverbio: tac-pùm, loro e io: tac, pùm: e loro tac pùm e io tac pùm! – ».
C’è un momento straziante nella corrispondenza. È il «fatale» 23 aprile del 1918. Enrico precipita con il suo aereo e muore. La sorella scrive alla madre: «Fu così violento il modo in cui appresi la terribile sciagura che mi parve impazzire; l’assistenza affettuosa dei parenti, tutti addoloratissimi, mi impedì di darmi alla disperazione, ma conforto non c’è, non c’è pace per il mio per il tuo dolore, mamma, lo comprendo; e per il dolore di quell’altro prode [Carlo Emilio] che si consuma in terra nemica. Finché sarà prigioniero glielo dovremo tenere nascosto, potrà vivere nell’illusione che noi con ogni cura gli alimenteremo; ma quando tornerà si rinnoverà un’altra atroce scena di dolore».
Fanghiglia a Honfleur (1917) non solo è mirabile nell’evocare le atmosfere geografiche e sociali del libro, ma il titolo, quella melma di cui si fa
cenno spesso poi nel romanzo,
è anche una atmosfera
esistenziale, che sta al fondo del romanzo di Simenon. Applausi (s.sa.)
Carlo Emilio soffrì
la solitudine e fu in competizione con il fratello, decorato
e intraprendente