Lo spirito pubblico nell’Urbe di fine ’800
Questioni e cronache della nuova capitale del Regno
Stefano Tomassini, scomparso il 10 gennaio, dismessi i panni del giornalista di vaglia, per anni si è dedicato alla ricostruzione delle vicende romane nell’Ottocento. Il suo ultimo lavoro, della «critica del sistema».
Non che mancassero buone ragioni: Tomassini ricostruisce la stagione della speculazione edilizia nella capitale in età umbertina, prendendo le mosse dal crollo di un palazzo in costruzione, a piazza Vittorio, nella notte fra il 6 e il 7 agosto 1885. La «Civiltà Cattolica» aveva colto al balzo l’occasione per puntare il dito accusatore contro la febbre del mattone: «Qui si demolisce per evitare sciagure; al Foro Romano si demolisce per cercare anticaglie; in via Nazionale si demolisce per allargare le strade; al Campidoglio si demolisce per far posto al monumento di Vittorio Emanuele, venutoci qui per demolire sempre, vivo e morto, e demolire tutto, tanto nell’ordine murale, quanto nell’ordine morale».
Non era solo il Vaticano a esibire un atteggiamento ostile o perplesso: i cultori delle belle arti e del paesaggio, specie se stranieri, si rammaricavano per la scomparsa dei grandi polmoni verdi rappresentati dai giardini delle ville aristocratiche, peculiarità della Roma demograficamente modesta del primo Ottocento. La perdita di Villa Ludovisi, sacrificata al dio denaro dal proprietario, Rodolfo Boncompagni Ludovisi, era l’emblema di una crescita urbana disordinata, che non aveva saputo coniugare la tutela del patrimonio con la progettazione di una capitale moderna ed efficiente.
L’inchiesta sulla Banca Romana, con i fallimenti a catena che avrebbe trascinato con sé nei primi anni Novanta, al centro e in periferia, avrebbe aperto un periodo di crisi quasi decennale, travolgendo una quota cospicua del ceto politico liberale. È vero, però, che, in questo caso almeno, alla Camera si registrò una reazione morale, e non solo dai banchi della sinistra estrema; segno che, la domanda di credibilità proveniente da alcuni settori dell’opinione pubblica stava traducendosi, pur lentamente, in una riclassificazione delle forze dislocate nell’arena rappresentativa. La crisi bancaria e il fallimento dell’impresa africana, con il disastro di Adua (1896), avrebbero fornito il propellente necessario al decollo di un nuovo equilibrio politico, quello giolittiano. Tomassini si ferma prima, però: la fine in duello di Felice Cavallotti, il “bardo della democrazia”, il fustigatore dei vizi della classe dirigente, nel marzo 1898, per lui suggella un’epoca.