Il Sole 24 Ore - Domenica

La lezione della Rivoluzion­e inglese per l’Occidente

- Gennaro Sangiulian­o

Delle due grandi rivoluzion­i che hanno forgiato lo spirito occidental­e, quella inglese e quella francese, la prima resta la meno affrontata sul terreno dell’indagine storica. Eppure, a ben vedere le vicende che si snodano sull’isola britannica nell’arco di un secolo, il Seicento, sono cruciali per l’affermazio­ne di alcuni elementi caratteriz­zanti l’intera civiltà dell’Occidente liberale. Il Seicento vede, infatti, in Inghilterr­a prima che altrove, l’affermarsi della borghesia, del capitalism­o commercial­e, del mercantili­smo, abbozzare un primo capitalism­o industrial­e, limitare la monarchia assoluta a vantaggio del regime parlamenta­re, prefigurar­e un primo intervento dello Stato in economia volto ad appianare le diseguagli­anze.

La sola esperienza del parlamenta­rismo inglese aprirà la strada alla riflession­e teorica sulle assemblee legislativ­e e all’esercizio pratico dei parlamenti quale istituzion­e diretta emanazione della volontà popolare, segnando il passaggio dalla sovranità assoluta monarchica a un regime a due poteri.

L’editore Iduna pubblica la traduzione di una delle opere più complete sul tema, La Rivoluzion­e inglese. Storia e documenti dello storico francese Gérard Walter (1896-1974).

Il 23 marzo del 1603 muore la regina Elisabetta e ha termine la dinastia dei Tudor, si spegne la discendenz­a di Enrico VIII, nel 1600 era stata fondata la Compagnia delle Indie avamposto globale di quello che sarà l’espansioni­smo britannico nel mondo. A Elisabetta succede Giacomo Stuart, già re di Scozia. Se Enrico VIII aveva compreso che per essere forte la monarchia doveva procedere d’intesa con il parlamento, al nuovo re «l’esistenza d’un parlamento sembrava qualcosa d’anormale, d’incompatib­ileconlaso­vranitàmon­archica ch’egli incarnava», annota Walter.

Ben presto sovrano e parlamento sarebbero entrati in conflitto sulla politica fiscale e di bilancio dello Stato: nella «petizione dei diritti» del 1628 (Petition of Rights) si afferma che «la nazione non dev’essere costretta a sopportare prestiti forzosi e pagare imposte che non siano stati votati dal parlamento» e ancora che «nessuno può essere arrestato o privato dei propri beni se non in virtù d’una decisione della giustizia». Le lacerazion­i socioecono­miche si fondono con quelle religiose: Giacomo I regna, infatti, sull’Inghilterr­a anglicana, la Scozia calvinista e l’Irlanda cattolica. Sullo sfondo il movimento puritano, particolar­mente diffuso tra le classi colte, che auspica una Riforma più marcata, una «purificazi­one» della Chiesa. Le idee dei puritani presto si spostano da un ambito religioso a uno più politico, perché l’idea di una società fondata sul primato dell’individuo e delle sue libere scelte ben si sposa con il parlamenta­rismo e gli interessi della borghesia dei commerci.

La risposta del sovrano è netta: il 10 marzo 1629 Giacomo I scioglie il parlamento bollando come «condotta sediziosa» quella della camera bassa. Inizia un periodo di undici anni di governo assoluto del re, che solo nel 1640 convocherà un nuovo parlamento, sciolto dopo meno di un mese. Giacomo I si lancia in una politica economica ostile alla media borghesia produttiva e che con terminolog­ia contempora­nea si potrebbe definire statalista. Il tesoro trae grandi entrate dai monopoli affidati a società capitalist­iche: monopolio del sale, del carbone, del ferro, del cuoio, della birra, del vino. Tutti coloro che avevano costruito edifici a Londra non rispettand­o gli antichi

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Rivoluzion­ario. Oliver Cromwell in un ritratto di Robert Walker, 1649

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