Gad Lerner e le contraddizioni irrisolte
Si esce con un pizzico di rammarico dalla lettura del nuovo memoir di Gad Lerner. Tanto avevamo apprezzato nel 2009 il suo Scintille. Una storia di anime vagabonde, nel quale ripercorreva le proprie radici ebraiche, quanto questo secondo tassello autobiografico ci appare un’occasione per certi versi mancata.
Nato a Beirut nel 1954 da una famiglia israelita emigrata a Milano tre anni più tardi, nel nostro Paese Gad hagoduto di una meritata carriera, a differenza del suo mai amato padre, un «fallito» di professione che avrebbe deliziato Emil Cioran. Già nei primi anni 90, grazie ai successi di talk show televisivi come Profondo Nord e Milano Italia, Lerner è infatti entrato nella «cerchia ristretta degli alti redditi», lasciandosi alle spalle una gioventù squattrinata da militante di Lotta Continua. Ma se Scintille era una partitura ariosa e corale, L’Infedele è sin troppo rapsodico e soggiogato dall’ego debordante del suo autore.
«Che ci faccio qui?», sembra chiedersi Gad mentre rievoca le vacanze alle Seychelles su uno yacht di «ricconi», gli ozi in Costa Smeralda ospite dell’Ingegnere, le frequentazioni con il banchiere Alessandro Profumo. Un’attrazione fatale verso l’establishment che in un certo senso lo accomuna a Eugenio Scalfari, anch’egli sempre in bilico fra potere e contropotere, salotti buoni e piazze indignate. Ma se il fondatore di «Repubblica» si è formato alla scuola liberal di Mario Pannunzio, Lerner proviene da un gruppo extraparlamentare di estrema sinistra. Già vicedirettore del quotidiano «Lotta Continua», nel 1993-96 lo è stato anche della «Stampa», accolto con tutti gli onori sull’elicottero dell’Avvocato.
Parliamo di un «imborghesimento» - da lui ammesso esplicitamente due anni fa in un’intervista liberatoria - che ha contraddistinto molti rivoluzionari sconfitti degli anni 70 e che può ricordare, a parti inverse, il riposizionamento dei virgulti fascisti dopo il crollo del regime. Se però diversi compagni di strada di Gad si sono riciclati a destra, egli non ha mai rinnegato le inclinazioni giovanili, anche quando – direttore del Tg1 (anno 2000) – era invitato a pranzo dal comandante dei Carabinieri. Ma come conciliare l’ostentazione delle sue fortune professionali e patrimoniali («mi attraeva la bella vita, perché negarlo?») con la lotta in difesa degli «ultimi» cui non ha mai abdicato, anche in virtù della sua identità ebraico-messianica? È questa l’irrisolta contraddizione in cui l’autore si crogiola per l’intero libro, non senza civetteria. A un certo punto sembra che una buona fetta della storia d’Italia, da Berlinguer a Marchionne, si sia dispiegata esclusivamente per permettere a lui, Gad Lerner, di incontrarne a cena i protagonisti in un ristorante di lusso.
Intendiamoci: è sempre un piacere leggere l’affabile Gad. Spietato il suo ritratto dell’odierna sinistra rimasta senza popolo. Malinconico il viaggio fra i giornalisti ormai «proletarizzati». Persuasiva la ricostruzione del brutale licenziamento subìto a «Repubblica» da Carlo Verdelli (che ha spinto Lerner a lasciare il foglio romano per «il Fatto Quotidiano»). Appassionata la difesa dell’«usuraio» Soros (Giorgia Meloni). Dolenti i profili dei tanti invisibili che sbarcano il lunario fra povertà e miseria.
Eppure, Gad non riserva alcun cenno a Leonardo Marino, un sottoproletario incensurato che nell’estate del 1988 si presentò ai carabinieri per autoaccusarsi del delitto Calabresi (maggio 1972), chiamando in correità tre dei suoi ex compagni di Lotta Continua. Proprio perché Gad, all’epoca ancora minorenne, è al di sopra di ogni sospetto, ci saremmo aspettati da lui qualche parola non scontata su questo «segreto brutto» che ha segnato una generazione, ben documentato da quasi sessanta faldoni processuali. Invece, non soltanto qui Lerner riesuma fruste tesi innocentiste, ma giunge addirittura a dipingere Lc quale legittimo erede del Partito d’Azione di Parri e Valiani. Cosicché, a tutt’oggi, gli unici reduci ad aver infranto la congiura del silenzio sul primo omicidio politico dell’Italia repubblicana restano Giampiero Mughini e Andrea Casalegno.
In fondo, questa cautela è comprensibile. Fare i conti con il caso Calabresi significherebbe infatti accettare una verità inquietante: negli anni 70, quando le Br di Curcio e Franceschini erano ancora una sigla minore, i primi a sparare per uccidere furono proprio i membri di quei gruppi extraparlamentari nei quali si faranno le ossa futuri beneficiari di splendide carriere nel giornalismo, nell’università, nell’industria.