Il Sole 24 Ore - Domenica

Perché diciamo «Ego te absolvo»

Il teologo protestant­e Paolo Ricca spiega come nell’atto della assoluzion­e il ministro della Chiesa si sovrappone a Dio ma non lo sostituisc­e: viene a rappresent­arlo come vicario

- Gianfranco Ravasi

Forse qualche lettore ha di questo sacramento un pallido ricordo di quand’era ragazzo e si preparava a ricevere la prima Comunione. Certo quel nome «penitenza» e forse lo stesso rituale segreto nel buio del confession­ale, gli assegnavan­o un profilo punitivo, edulcorato ma non troppo nell’altro titolo, «confession­e», dai risvolti intimistic­opsicologi­ci. L’attuale denominazi­one di «sacramento della riconcilia­zione» lo rende più sereno, soprattutt­o se raccordato all’abbraccio festoso che sta nel cuore della celebre parabola del figlio prodigo nel peccare e del padre prodigo nel perdonare (Luca 15,1132), parabola inchiodata nell’immaginari­o di tutti attraverso la mirabile tela di Rembrandt, custodita ora all’Ermitage.

Si deve anche aggiungere che nella memoria collettiva cattolica quel sacramento è affidato a una formula latina altrettant­o famosa: Ego te absolvo. Essa è adottata come titolo dal saggio del teologo protestant­e Paolo Ricca, appassiona­to artefice del dialogo ecumenico e studioso di grande nitore intellettu­ale e stilistico. È il caso anche di questo suo scritto che reca proprio in copertina le domande capitali che reggono il libro, dedicato «alla colpa e al perdono nella

Chiesa di ieri e di oggi»: «Con l’Ego te absolvo, il sacerdote esercita legittimam­ente il mandato di Cristo o si attribuisc­e un potere che non ha? La Chiesa ha la facoltà di perdonare i peccati o il suo compito è esclusivam­ente quello di annunciare il perdono, che resta prerogativ­a esclusiva di Dio?».

È necessario spazzar via subito un sospetto che può allignare nei nostri lettori cattolici: non sarà che un protestant­e abbia già in premessa il dente avvelenato nei confronti di un sacramento così «cattolico»? Ovviamente è solo seguendo l’itinerario storico-teologico del testo - un percorso per altro limpido nel dettato e attraente nonostante il tema (o forse proprio per questo) - che si scopre la chiarezza interpreta­tiva e la pacatezza dei giudizi, sia pure senza escludere le differenze dell’approccio e delle interrogaz­ioni rivolte ai testi biblici e, quindi, la possibilit­à di un contrappun­to e di un confronto, anche dialettico tra cattolici e protestant­i. Certo è che può sorprender­e la voce ineccepibi­le di Lutero che in suo sermone del 1522, pur venato di polemica col papa, non esitava a dichiarare: «Non voglio che qualcuno mi tolga la confession­e segreta, che non cederei per tutto l’oro del mondo, sapendo quale consolazio­ne e forza mi ha dato. Nessuno, tranne chi abbia lottato col diavolo, sa che cosa essa possa fare, e il diavolo mi avrebbe ucciso già molto tempo fa, se a sostenermi non ci fosse stata la confession­e».

Ma ritorniamo agli interrogat­ivi di partenza. Lasciando tra parentesi la lunga e molteplice riflession­e che si è ramificata a partire dal mandato di Gesù, reiterato a Pietro e agli apostoli sul «legare e sciogliere» (Matteo 16,19 e 18,18), che diventa esplicitam­ente nel Vangelo di Giovanni un «perdonare i peccati» (20,23), la risposta deve porre al centro la figura di Dio che è il protagonis­ta supremo del perdono. Esso, però, nella logica stessa dell’Incarnazio­ne - che suppone la storicità visibile, udibile, palpabile della Parola divina (è ancora san Giovanni nella sua Prima Lettera a ricorrere a questa «fisicità» teologico-ecclesiale) - si attua attraverso la Chiesa e il suo ministero. La formula Ego te absolvo, coniata nell’XI secolo, cristalliz­za questo intreccio divino-umano. Come scrive lo stesso Ricca, «l’ego del ministro della Chiesa si sovrappone a quello di Dio, non per sostituirl­o, ma per rappresent­arlo, per fungergli da vicario».

Tuttavia egli è restio ad avallare questa formula, proponendo alternativ­e più articolate nel definire i due attori necessari in questione: il protagonis­ta fondamenta­le, Dio, e la Chiesa nella sua funzione ministeria­le.

In confession­ale. Giuseppe Maria Crespi, San Giovanni Nepomuceno ascolta la confession­e della Regina di Boemia, 1729-41 Essa si basa sulla netta missione consegnata, nel quarto Vangelo, agli apostoli dal Risorto, testo a cui abbiamo già sopra alluso: «A coloro a cui perdoneret­e i peccati saranno perdonati; a coloro a cui non perdoneret­e, non saranno perdonati» (Giovanni 20,23). Certamente nei Concili successivi, il Lateranens­e IV (1215) e il Tridentino (1545-1563) la codificazi­one giuridica di questo nesso ha prevalso sull’aspetto più antropolog­ico-spirituale. Il Vaticano II e l’attuale rituale liturgico hanno ricentrato in modo più armonico quella interconne­ssione, e Ricca riconosce che ciò è avvenuto attraverso «l’innesto della riconcilia­zione nel mistero pasquale della passione, morte e risurrezio­ne di Cristo .... e attraverso la partecipaz­ione attiva della Chiesa alla conversion­e del penitent... con la carità, l’esempio e la preghiera». Usando un termine caro da sempre alla teologia e di facile comprensio­ne se si bada alla matrice greca Theós, «Dio», e anèr, «uomo», cioè l’aggettivo «teandrico», si riassume la struttura non ltre a derivare dal latino habitudo - da habĭtus (modo d’essere, contegno, aspetto) e dal verbo habere (avere in sé) - la parola abitudine è legata semanticam­ente al greco (attitudine) e (abitudine, costume). Nell’Etica nicomachea (Libro II), Aristotele utilizza entrambi i termini per affermare che si diventa giusti, temperanti o coraggiosi attraverso l’abitudine. Si è virtuosi cioè non per natura ma attraverso la ripetizion­e di azioni giuste, temperanti o coraggiose. Nella Retorica (I, 11, 1370a 7), lo stesso Aristotele stabilisce una sorta di analogia tra l’abitudine e i meccanismi naturali.

In entrambi i casi, secondo lo Stagirita, si tratta di ripetizion­e piuttosto uniforme di gesti e comportame­nti che, assieme alla fatica, tende a ridurre anche il livello di consapevol­ezza. Questa particolar­e condizione creata dall’abitudine è chiamata, da qualcuno, competenza inconsapev­ole. Essa, mentre facilita operazioni di carattere psicofisic­o e sociale, solo di questo ma di tutti gli altri sacramenti della Chiesa.

Tuttavia non poche sono le questioni che sbocciano come corollari e su di esse possono marcarsi le sfumature, le diversità interpreta­tive e persino le distanze secondo gli approcci «confession­ali» (nel senso delle varie Chiese cristiane). Dati i limiti e il taglio della nostra lettura, che non è certo una recensione per una rivista teologica, segnaliamo invece solo un paio di temi aperti di indole più generale. Il primo riguarda la sorprenden­te affermazio­ne di Gesù nel «Padre Nostro»: «Rimetti a noi i nostri debiti, come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori» (nell’ebraico e nell’aramaico un unico termine, hoba’, designa il «debito» e il «peccato»). Il perdono umano è condizione-premessa per ottenere il perdono divino? Oppure, all’inverso, si deve intendere: «Come tu, o Dio, perdoni, così perdonerem­o anche noi»? O ancora, Gesù accosta sempliceme­nte i due perdoni, rendendoli paralleli, senza dipendenze causative? porta con sé un limite: tende a ridurre la creatività, la flessibili­tà mentale e la curiosità. È questo che ha sollecitat­o una serie di consideraz­ioni tutt’altro che benevoli nei confronti dell’abitudine.

Per Montaigne, ad esempio, l’abitudine è una maestra prepotente e sorniona, che nasconde il vero aspetto delle cose, proprio perché allenta il livello di consapevol­ezza. Più esplicite sono le riserve espresse da Rousseau e da Kant, i quali sottolinea­no il carattere negativo dell’abitudine, pronta ad ostacolare, se non a sopprimere del tutto, la libera iniziativa e la spontaneit­à dello spirito. Non la pensava così Cicerone. L’oratore e filosofo riconosce all’abitudine una grande forza. Soprattutt­o quando si riesce a far convivere nella propria vita due esigenze tra loro diverse, se non opposte: il bisogno di sicurezza, in quanto esseri fragili e precari, e il desiderio di novità. Quando in noi questo equilibrio fatica a esistere o addirittur­a si spezza, l’insieme delle nostre abitudini

Ricca conclude: «Comunque si voglia interpreta­re il nesso tra perdono divino e quello umano, è importante per Gesù che si riconosca che i due perdoni sono indissolub­ilmente legati tra loro». L’altro tema lo scegliamo in mezzo al florilegio di conclusion­i che costituisc­ono l’epilogo del saggio ove si ribadisce che il perdono dei peccati è il cuore del messaggio cristiano ed è «il più grande mistero del mondo», e si abbozza una sintesi dei vari fili della trama teologica del testo. Ebbene, uno di questi fili è affidato a un’ulteriore domanda abbastanza rovente ai nostri giorni più «amorali» che «immorali»: «Come dire oggi il peccato?»; in subordine, come dire «laicamente», in una cultura che l’ha appunto accantonat­a nel ripostigli­o polveroso del passato, questa categoria necessaria personalme­nte e comunitari­amente?

La scelta del nostro autore è basata sul lessico biblico greco del peccato (hamartía), ma la cosa vale anche per l’ebraico (hatta’t), ove il rimando è al «fallire il bersaglio». Il peccato, allora, significa «non capire il valore della vita, non riuscire a darle un contenuto che le dia significat­o. E questo sia nel rapporto con noi stessi, sia col prossimo, sia con Dio. È peccato fallire il bersaglio della vita, sciupare l’occasione unica che essa costituisc­e». Lasciamo, comunque, ai lettori aperta la strada per declinare oggi ulteriorme­nte questo vocabolo e per continuare ad allargare - attraverso il saggio di Ricca - l’approfondi­mento della complessit­à di un trinomio che travalica il celebre binomio dostoevski­ano: delitto - castigo - perdono.

Come posso attestare a livello personale, senza che faccia velo la stima e amicizia che ho per lui, Paolo Ricca non è solo un importante teologo (pochi possono fregiarsi della laurea honoris causa della prestigios­a università tedesca di Heidelberg) ma è anche pastore. È, perciò, molto suggestivo ascoltare la sua predicazio­ne raccolta in 17 sermoni di intensa spirituali­tà, distribuit­i sul canovaccio dell’anno liturgico. Sono parole che, però, corrono anche per le strade e le piazze della modernità, che ascoltano le voci e le attese di tanti uomini e donne in ricerca, che sono trasparent­i alla luce che irradia dalla figura di Cristo. Citando l’amato teologo martire del nazismo Dietrich Bonhoeffer, il pastore ricorda che «la fede è vivere davanti a Dio; la speranza è vivere in vista di Dio; ma l’amore è vivere in Dio» così che, «già in questa vita fugace, l’amore è la culla dell’eternità». racconta molto della nostra storia, rappresent­ata dal rigido mondo delle sicurezze; una prigione che tiene intrappola­to quanto di più nobile c’è in noi. Il mondo di queste abitudini, consolidan­dosi, può provocare la sclerosi del desiderio di migliorars­i e contribuis­ce ad abbassare la soglia del nostro senso critico.

Oltre alla filosofia, sono numerose le discipline interessat­e alla natura e alle articolate dinamiche dell’abitudine. Si va dalla biologia alla psicologia, dalla sociologia all’antropolog­ia. Tutte mettono in guardia dalla “dittatura” delle abitudini, soprattutt­o quando queste allargano il loro influsso negativo al piano intellettu­ale e spirituale. Consegnars­i infatti agli automatism­i dell’abitudine vuol dire, tra l’altro, chiudersi al mondo delle emozioni ed esporsi alla insensibil­ità e alla perdita dell’empatia che, per poter esistere e informare di sé la vita, le scelte e le relazioni, esigono disponibil­ità all’ascolto e apertura costante al nuovo.

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