ULTIMI NEL CORPO E ANCHE NELL’ANIMA
Non c’è un elicottero in volo che sostiene una statua di Cristo, come nel favoloso prologo della Dolce vita: qui a salire verso il cielo (il rimando non è certo casuale) è una povera Madonnina di gesso recuperata in una discarica abusiva e sollevata a testa in giù, appesa a una lunga corda, da un gruppo di miserevoli “recuperanti”. In una Sicilia pietrosa e assolata, dove ai bordi delle strade si accumulano rifiuti d’ogni tipo, due ragazzini e il loro padre conducono una Triste vita, raccogliendo ogni giorno rottami ferrosi gettati dai ponti o in vecchi siti minerari da torme di incivili da sempre impuniti.
Il film di Pennetta segue soprattutto Oscar, il più giovane del gruppo: occhi tristi, viso dolce, desiderio inespresso di una impossibile, vita diversa. Nel frattempo, in parallelo, si racconta un’altra storia: quella di Stanley, giovane immigrato nigeriano che si mantiene occupandosi delle pulizie in una chiesa della stessa città. Le vite dei due potrebbero benissimo non incontrarsi mai. Le accomuna però lo stesso destino di marginalità non urlata, quasi “normale”, in un contesto sociale che sembra aver accettato il disagio come ineluttabile e ineliminabile. E poi c’è un altro protagonista assoluto, il paesaggio. Scabro, disumanizzato, sporcato, vittima di una eterna incuria. Non solo sfondo, ma iconica rappresentazione del deserto in cui i due, e insieme tutte le persone che stanno loro intorno, sono costretti a vivere. Resta però quella Vergine rovesciata, trovata miracolosamente intatta tra i i rifiuti, a ricordarci una sacralità rimpianta e perduta, e forse una tenue possibilità di riscatto, rinvenibile nel fondo negli sguardi di Oscar e Stanley. Sono certamente fra gli sconfitti, al momento, eppure ancora non del tutto piegati nell’anima. Nel bel finale, l’unico momento sottolineato da accompagnamento musicale (il solenne e toccante Stabat Mater di Pergolesi) la loro dignità umana ci appare esattamente come quella Madonnina: violata, ma non distrutta.
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