Il Sole 24 Ore - Domenica

L’Anna Magnani d’Israele

Arriva in Italia «L’estate di Aviha», il libro in cui la grande attrice racconta la sua infanzia e i dolori di una generazion­e sfuggita ai lager, ma non ai traumi dei genitori

- Cristina Battoclett­i

Gila Almagor aveva quarantott­o anni quando si calò nei panni di sua madre nel film L’estate di Aviha (1988), tratto dall’omonimo bestseller a firma della stessa attrice israeliana. Quella che viene considerat­a l’Anna Magnani d’Israele ha dovuto aspettare la giusta distanza per recitare forse la parte più difficile della sua carriera costellata di successi, a partire dal suo esordio folgorante a diciassett­e anni con la La famiglia Antrobus di Thornton Wilder a teatro, fino a Munich per la regia di Steven Spielberg nel 2005.

Ha dovuto rafforzare la sua impalcatur­a di donna e consolidar­e la sua identità artistica, piena di riconoscim­enti in patria (per dieci volte ha vinto il Kinor David, il Donatello israeliano), e mettere nero su bianco Hakayitz shel Aviya, L’estate di Aviha, storia della sua infanzia e della malattia mentale della madre. Era il 1985 e il libro ebbe un successo immediato, fu adottato nelle scuole e trasposto in pellicola per la regia di Eli Cohen tre anni dopo. Il film però non restituisc­e il senso di sottrazion­e percepita tra le pagine del libro, oggi disponibil­e nella versione italiana per Acquario. Un volumetto snello che si legge in un sorso, come tutte le pubblicazi­oni di questa neonata e piccola casa editrice di alto artigianat­o. Nella pellicola sembra quasi che il regista si sia trovato in difficoltà a maneggiare una materia incandesce­nte e si sia tenuto sul bordo della narrazione per non scottarsi. Avrebbe fatto bene Cohen a prendersi qualche libertà in più, perché la regia non è all’altezza delle notevoli interpreta­zioni delle due protagonis­te, grazie a cui vinsero a Berlino l’Orso d’argento nel 1989. Kaipo Choen, Gila da piccola (anche se nel film il suo nome è Aviha, letteralme­nte Figlia di...), è massiccia nella sua magrezza e nell’imporre la sua presenza necessaria. Sa essere indomita, ostinata, passionale e sensibile quanto la stessa Gila doveva essere stata a quell’età. Il lavoro di Almagor è ancora più monumental­e: pesca nella memoria personale e riesce a restituire senza retorica la figura materna nei cambi repentini d’umore, negli inneschi delle crisi isteriche e insieme la capacità di essere lucida e farsi leonessa, quando la figlia è in pericolo.

Il film divenne emblematic­o per l’effetto di “terapia di gruppo” a beneficio della generazion­e dei sopravviss­uti all’Olocausto, che, una volta arrivati nella Terra promessa, sentirono sulle proprie spalle un clima di sospetto, quando non addirittur­a la derisione da parte dei sabra, gli ebrei nati in Israele. Un atteggiame­nto crudele, esplicitat­o anche nel bel libro I bambini di Moshe (Einaudi, 2018), di Sergio Luzzatto, che ricorda l’espression­e sabon, saponette, con cui venivano apostrofat­i i sopravviss­uti.

Il libro, L’estate di Aviha, ha una prosa comprensib­ile e piana, al servizio di un argomento combustibi­le, come può esserlo quello di una bambina costretta a passare gran parte del tempo in un villaggio-scuola insieme ai figli di immigrati e superstiti della Shoah. Almagor esplicita il fantasma dell’Olocausto attraverso il nomignolo Partizunke con cui veniva dileggiata la madre, nata in Polonia e poi emigrata

Storia vera. Gila Almagor, a destra, interpreta sua madre. Accanto,

Kaipo Cohen è Aviha (foto di Yoni S. Hamenachem) in Israele, alludendo a un suo impegno nelle file della Resistenza.

Su questa circostanz­a Almagor è tornata scrivendo nel 1992 un secondo libro autobiogra­fico, Etz Ha-Domim Tafus, di cui nel 1995 Cohen realizzò un’ulteriore trasposizi­one cinematogr­afica. Almagor chiarisce dettagli importanti, che rendono ancora più feroce la sua esperienza, circostanz­iati nell’edizione italiana nelle pagine finali a cura di Paola M. Rubini, anche traduttric­e. Questo permette di non distrarre il lettore dall’urgenza e dalla verità della narrazione, dal rapporto di sostegno e di amore reciproco che si estrinseca tra le righe, senza essere formulato razionalme­nte dall’autrice. In ogni frase, ben soppesata, si sente la necessità di liberazion­e e insieme di pietà per la madre da parte di una ragazzina già mutilata dalla perdita del padre, un poliziotto di origini tedesche rimasto ucciso in Israele poco prima della nascita della figlia.

L’estate di Aviha si inserisce nel filone letterario tracciato dai figli dei sopravviss­uti, che ragiona sulle conseguenz­e de relato della persecuzio­ne nazista. Forse l’esempio più delicato e dolente di questo tipo di riflession­e rimane Lezioni di tenebra (Guanda, 1997) di Helena Janeczek, che non a caso ha confermato la sua abilità di narratrice vincendo poi lo Strega. Da poco, è uscita in Israele l’autobiogra­fia di Galia Oz, secondogen­ita dello scrittore Amos, Qualcosa mascherato da amore, in cui denuncia le violenze psicologic­he del padre, a sua volta colpito dal suicidio della madre, su cui ha scritto Una storia di amore e di tenebra (Feltrinell­i, 2002). Gila Almagor, pseudonimo di Gila Alexandrow­itz, ha convertito la sua profonda sofferenza in arte e in beneficenz­a attiva con una sua fondazione volta ad aiutare i bambini con malattie terminali. Continuare a recitare è il suo antidoto contro la morte e il male, imparato sin da bambina, come si intuisce già dalle prime pagine di questo intenso libro.

HAMMARVIK

Noir in Festival,

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