Pizze stellari nell’universo gastronomico
Ese le Stelle Michelin illuminassero anche le notti di altri universi culinari, più o meno gastronomici, nel rispetto della Costituzione delle Guide Rosse? E se fosse proprio la pizza (non solo gourmet) a salvare il cielo stellato della gastronomia? Potrà la nostra cucina popolare e di strada salvare la più celebre Guida al mondo, nel mondo che verrà?
Luciano Pignataro, autore del classico La Pizza una storia Contemporanea (Hoepli) e curatore dell’ormai imprescindibile 50TopPizza, è convinto che il momento sia arrivato: «la pizza è stata in genere registrata, anche dalla Michelin, alla stregua di un cibo etnico che si trova solo a Napoli. Le cose sono profondamente cambiate ed è in evoluzione il concetto stesso di pizzeria».
Eppure resiste un tabù, una cesura tra la ristorazione d’eccellenza e la pizza, mai riconosciuta dalla Guida rossa se non, in minima misura, nella più recente categoria
BIB Gourmand, che ha per ora detto di sì a una decina (poche, per il piatto più conosciuto al mondo, a partire dalla Francia, primo consumatore in Europa) di pizzerie italiane. «La rossa», continua Pignataro, «non è al momento attrezzata ad entrare in questo mondo e si limiterebbe a registrare le tendenze invece di imporle».
Lo scorso ottobre, Burger King, per lanciare il nuovo Mister Angus ha sfidato le Guide: «Non ce la meritiamo una stella?”. Pronta la risposta: «Chi ha detto che abbiamo bisogno di servizi d’argento?». La cosa si è risolta, naturalmente, in un nulla di fatto. Perché alla fine, chi compra le Rouge non cerca la rivoluzione, ma l’ostentazione. Toccherà a Vincent Montagne, pronipote del fondatore, portare le Guide nel mondo (sostenibile) che verrà, assai popolato da guide ambiziose, come Le Fooding, The Monocle Restaurant Award e soprattutto The World’s 50 Best Restaurants. Così, nel 2016 guadagnano una Stella due bancarelle di Singapore (da Liao Fan si mangia con 1,90 euro) e ora Damini Macelleria & Affini (Arzignano), banco e tavoli, frollature e impastature in un unico luogo. Dunque anche una pizzeria, un gelato artigianale, perfino un bar potrebbero fregiarsi della Stella? Loro, i ristoratori-pizzaioli, sono pronti a lanciare la sfida. Potrebbe essere stellata la parigina Bijou di Gennaro Nasti (pizza al ragù napoletano e impasto allo Champagne); e con lui, i Masanielli di Martucci, i Tigli di Padoan, 50Kalò di Ciro Salvo a Londra, Pepe in Grani, La Notizia di Enzo Coccia. Altri non guardano alle stelle ma meritano il viaggio, come il giovane pizzaiolo parigino Guillaume Grasso e Malafemmena a Berlino.
Passando al gelato, perché non andare a ispezionare laboratori di ricerca come quello di Ciacco a Milano e Paolo Brunelli a Senigallia? Non rispondono forse questi luoghi alla regola aurea Michelin? Il fatto è che la cucina italiana è la più amata al mondo, forse anche la più conosciuta, ma non la più riconosciuta. La nuova sfida, oltre l’esperienza stellata, è quella dell’emozione.
Alla base della grande cucina di ricerca italiana, da Isabella Potì a Crippa, da Bottura a Ugliassi. Che sopravvivrebbero anche senza l’abito stellato, restando loro stessi, anche nel piatto. Perché, alla fine, sta tutto nell’autenticità e nella cura. Il resto è mercato drogato, perline date agli indiani, cioè a noi. Che possiamo consolarci con una pizza o un gelato.
«La cucina italiana non è replicabile, quella francese è seriale. Gli odiatori della Michelin sono tanti, ma nessuno è ancora riuscito a trovare un’alternativa» sostiene la scrittrice e gourmet Camilla Baresani, mentre d’altro canto «ci sarà sempre un notaio, in qualche parte del mondo, che avrà bisogno della Michelin per sapere quale ristorante scegliere».