LE IRREQUIETE VACANZE DI ČAJKOVSKIJ A SANREMO
Il musicista giunse nel 1877 e scrisse alla baronessa Von Meck e al fratello Anatolij offrendo singolari notizie sul soggiorno: prezzi cari, alberghi non all’altezza e fastidiosi ulivi ovunque. Però, luogo ideale per comporre
Arriva a Sanremo di sera, l’ultimo di dicembre del 1877, e subito l’indomani vola di corsa all’ufficio postale, ansioso di trovarvi le agognate lettere provenienti dalla Russia, le sole in grado di reggergli le trame del cuore. In particolare quelle scritte dal fratello Anatolij, di dieci anni più giovane, detto Tolja o Tolička, e da lei, la baronessa Von Meck, la cara inestimabile amica Nadežda Filaretovna, confidente e mecenate: le scriverà per 768 volte, nell’arco di quattordici anni, in una corrispondenza devota e grata, e che proprio da questo momento prende forma di resoconto quotidiano, quasi diario, anche se non completamente svelato. Inizia però malissimo il soggiorno di Pëtr Il’ič Čajkovskij nella Riviera dagli inverni tiepidi, dove già stazionavano colonie di russi, sulle orme della zarina Maria Aleksandrovna, e soprattutto di inglesi, in cerca di aria salubre per i polmoni inquinati.
Nel peggiore dei modi parte il racconto da San Remo (si scriveva ancora così) perché il compositore non tiene conto del calendario gregoriano, di quasi due settimane in avanti rispetto al giuliano in vigore in patria, e perciò con disappunto trova la posta chiusa: «Come mi sentirei sollevato se avessi lettere da Voi, dai miei fratelli e dagli altri amici. Ma, neanche a farlo apposta, oggi è festa!». Così nella prima missiva alla baronessa. La lista delle lamentele prosegue: innanzitutto l’albergo è pessimo. O meglio, il sontuoso Hotel Victoria che la guida Baedeker, bibbia del viaggiatore, consigliava come il migliore, non corrisponde affatto alle aspettative: «bello, vuoto ed economico», se lo immaginava (sottolinea nella lettera al fratello gli ultimi due aggettivi) ed invece è il contrario. Giunto in compagnia del valletto Aleksej Sofronov, detto Alëša, dettaglia: «Ci hanno sistemato in una camera minuscola, dove oltre allo stretto necessario non c’è nulla, e si deve scrivere su un piccolo tavolino da toilette. Nella camera c’è il listino dei prezzi. La camera costa 8 franchi; il pranzo, fuori dalla table d’hôte, 8 franchi, e se è servito in camera 10 franchi! Il caffè del mattino 1,75, e in camera 2 (bisogna bere anche il caffè alla table d’hôte); ecc. ecc.».
Prezzi a parte, ritornello costante, il vero problema sono gli altri ospiti: il musicista vive un momento tormentato, più che mai, ha trentasette anni, sei mesi prima ha tentato un matrimonio di copertura della propria omosessualità, per non mettere a repentaglio gli allievi del Conservatorio di Mosca e anche i due fratelli, i gemelli Modest e Anatolij, e il risultato è stato fallimentare, sotto tutti i punti di vista.
Ora ha debiti da pagare verso la moglie, Antonina, si è autosospeso dall’insegnamento, ed è in fuga, più da se stesso che dalla patria. Non vuole incontrare alcuno e detesta in particolare gli inglesi, e non solo per motivi strettamente contingenti, legati alla guerra russo-turca, bensì proprio per lo stile, che gli resterà sempre estraneo: anche a distanza di anni, nel 1893, quando ormai è il musicista russo più blasonato, descriverà in una lettera all’amato nipote Bob come un rito da Medioevo la laurea honoris causa a Cambridge, con tanto di palandrana. Ma qui non è ironico, predomina la stizza: «Quando andai in sala da pranzo la table d’hôte stava terminando e mi sfilarono incontro almeno 100 eleganti dame e cavalieri, che mi squadrarono da testa a piedi, con mia grande confusione. Mi sembrò che si conoscessero tutti; erano tutti inglesi (ed io in questo momento non li posso soffrire) e, se si alloggia in un hotel come questo, bisogna agghindarsi come loro per la colazione e il pranzo. Quindi era evidente che bisognava cercare un’altra sistemazione».
Dal Victoria, il primo grande albergo a Levante, arrivando a Sanremo da Genova, «cento e più camere, con bigliardi e bagni, e sale da conversazione», come vantavano le guide dell’epoca, Čajkovskij si sposta a Ponente: non prende nemle
Lettere da meno in considerazione il rinomato Hôtel de Nice, in centro, dove con fasto di corte e servitù aveva soggiornato due anni prima l’Imperatrice, che poi donerà le famose cento palme alla città, per adornare la passeggiata a mare che tuttora porta il suo nome, e lontano da occhi indiscreti scova la Pension Joly, due piani, due bovindo, un giardino fino al mare. «Il mobilio non è un granché, ma la pulizia è soddisfacente e i padroni sono molto gentili». Qui alloggerà per sette bibliche settimane, in quattro stanze che formano un appartamentino, nessun altro ospite vicino: «colazione all’una e pranzo alle 7 nella nostra camera». Nel frattempo, ha recuperato a Milano gli altri due compagni di soggiorno, il fratello Modest, detto Modja, e il piccolo Nikolaj, detto Kolja, nove anni, sordomuto, figlio del possidente Hermann Konradi, che glielo ha affidato affinché ne curi l’educazione al linguaggio, secondo il metodo vocale e non a gesti del medico Jacques Hugentobler, clinica a Lione. Tutto questo Čajkovskij racconta alla baronessa, inviandole una fotografia di loro quattro, ai gradini d’ingresso: il bambino con gli stivaletti, il domestico di profilo, i due fratelli su sedie da giardino, bombetta in testa e bastoni da passeggio.
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