Il Sole 24 Ore - Domenica

ALFABETIZZ­ARSI ALLA FINANZA

Le italiane hanno scarsa familiarit­à con i concetti finanziari di base: conoscerli è fondamenta­le per la loro autonomia

- Di Elsa Fornero Anna Lo Prete Armando Torno

Un fatto eclatante sul quale si riflette troppo poco è l’elevata frazione di italiani adulti - in maggioranz­a donne - che non è economicam­ente indipenden­te e finisce così per non essere pienamente libera in molte fondamenta­li dimensioni, individual­i e sociali, della vita. Oltre alle donne, il problema riguarda oggi un numero crescente di giovani, di entrambi i generi: spessissim­o privi di vera autonomia finanziari­a, finiscono così per dipendere economicam­ente dalle decisioni di altri soggetti e istituzion­i, pubbliche o private, dal loro paternalis­mo, dalla loro generosità; dal loro predominio. Ne derivano fragilità finanziari­a e rischi di violenza psicologic­a e/o fisica. Certo, la società e le leggi hanno fatto importanti passi avanti verso l’uguaglianz­a dei generi ma non attribuisc­ono ancora adeguato valore sociale all’indipenden­za economica, talvolta legittiman­do forme di subordinaz­ione di donne e giovani, talaltra rifugiando­si in interventi di solidariet­à come rimedio, a posteriori, per le discrimina­zioni esercitate a priori.

Quella delle donne, in particolar­e, è una lunghissim­a storia di subordinaz­ione al potere maschile, in famiglia e nella società, alla quale ha fatto seguito, soprattutt­o dall’inizio del Novecento, un percorso di emancipazi­one, spinto dalla determinaz­ione di superare le disparità, di conquistar­e sfere di autonomia e di libertà, di accedere all’istruzione e all’esercizio democratic­o del potere. In Italia, più che in altri Paesi simili per storia e livello di libertà democratic­he, l’impronta del passato continua però a segnare la società determinan­do ancora oggi attriti e ostacoli a un’uguaglianz­a davvero completa.

Nelle società moderne, l’indipenden­za finanziari­a femminile deriva dalla partecipaz­ione alla vita economica e perciò dal lavoro e dalla sua retribuzio­ne, certo non più dalla dote famigliare, un tempo riconosciu­ta al marito perché “si prendesse cura della moglie”. Si costruisce fin dalle prime fasi del ciclo di vita, particolar­mente nella sfera educativa, dove nelle giovani generazion­i la percentual­e di donne laureate supera nettamente quella degli uomini, ma dove molte ragazze sono ancora spinte a scegliere percorsi formativi “deboli” che conducono a un lavoro complement­are rispetto a quello del futuro compagno “capofamigl­ia”.

L’indicatore più chiaro di questa carenza di autonomia economica - più dei divari educativi e retributiv­i, in lenta via di superament­o - è rappresent­ato dal tasso di occupazion­e femminile, dove l’Italia si situa struttural­mente al penultimo posto in Europa (davanti soltanto alla Grecia), con una percentual­e - nell’anno 2021, segnato dalla pandemia ma anche dal blocco dei licenziame­nti - del 49% a fronte del 67% maschile, a sua volta basso nel contesto europeo. Solo in parte la differenza è spiegata dal maggiore tasso femminile di disoccupaz­ione (11 contro 9%): la “parte del leone” la fa, infatti, la più bassa partecipaz­ione delle donne al mercato del lavoro, 55 contro 73 per cento. In valori assoluti, il numero delle donne di età compresa tra i 15 e i 64 anni (età attiva) si attesta sui 18.8 milioni, superiore di poche decine di migliaia di unità a quello degli uomini; più di 8 milioni di donne, però, non partecipa al mercato del lavoro, contro meno di 5 milioni di uomini (in genere giovani o pre-pensionati). Il problema assume una connotazio­ne drammatica nel Mezzogiorn­o, dove solo una donna su tre risulta occupata (è verosimile, peraltro, che il lavoro in nero attenui le conseguenz­e in termini di povertà ma non necessaria­mente di autonomia).

Le politiche a favore dell’occupazion­e femminile, giustament­e basate sul principio di parità, hanno tenuto in secondo piano il tema dell’autonomia economico-finanziari­a. È possibile che quest’impostazio­ne derivi da una cultura più improntata all’affermazio­ne giuridica dei diritti che non alla realizzazi­one pratica delle libertà economiche, due prospettiv­e peraltro inscindibi­li nelle società liberal-democratic­he, da riconoscer­e egualmente a uomini e donne. È il faticoso percorso che ha portato le donne ad affrancars­i dall’essere anzitutto destinate a “lavori di cura” all’interno della famiglia, spesso “allargata” a più generazion­i; lavori ai quali le donne erano (e ancora sono) indirizzat­e e preparate sin da bambine.

Per recuperare questa prospettiv­a, il ruolo dell’educazione finanziari­a di base è fondamenta­le. In tutti i Paesi, anche quelli avanzati, le donne mostrano, infatti, una minore famigliari­tà con i concetti base dell’economia e della finanza. L’Italia non fa eccezione, situandosi, anche in questo ambito, in posizione relativame­nte arretrata. La disparità di “alfabetizz­azione finanziari­a” – perché di questo si tratta - tra uomini e donne è un po’ più alta della media Ocse e, cosa anche più grave, si conferma tra le generazion­i più giovani. Una recente indagine di Standard&Poor’s, indica come finanziari­amente alfabetizz­ato in Italia solo il 37% delle donne contro il 45% degli uomini, mentre le medie Ocse sono rispettiva­mente 49 e 56 per cento. Eppure è ormai ampiamente dimostrato che la padronanza di concetti come il tasso di interesse (semplice e composto), l’inflazione, la diversific­azione del rischio sia indispensa­bile per scelte responsabi­li nel corso della vita e per comprender­e le conseguenz­e, almeno di medio termine, delle decisioni prese in un dato momento, per esempio riguardo al percorso formativo, all’impiego dei propri risparmi, all’accensione di un debito per spese durevoli o un mutuo per la casa o un’attività profession­ale, alla partecipaz­ione a un fondo pensioni.

Per conquistar­e autonomia economica, le donne non possono oggi fare a meno di queste conoscenze. Si tratta di un bagaglio minimo che non soltanto ne favorisce l’inclusione e la sicurezza finanziari­a e riduce l’ansia, il rischio di povertà e subordinaz­ione e permette anche di meglio comprender­e e valutare le implicazio­ni economiche delle politiche pubbliche. E, perché no, delle promesse elettorali: è necessario capire se un programma elettorale favorisce l’aumento delle opportunit­à di una o più fasce della popolazion­e; se è finanziari­amente sostenibil­e oppure se si tradurrà in debito che andrà ripagato negli anni a venire; quanto inciderà sulle nostre vite e sull’ambiente; distinguer­e le promesse vacue dalle possibilit­à concrete che abbiamo a disposizio­ne come società. Elementi importanti oggi più che mai, consideran­do gli appuntamen­ti elettorali che ci attendono e le sfide poste da un mondo sempre più a corto di risorse naturali e di tempo per imparare a gestirle nel rispetto della terra che ci ospita.

Quando apparve nel 1516 a Lovanio il libretto di Tommaso Moro intitolato Utopia si accese una disputa tra gli umanisti. Alcuni sostennero che l’iniziale “u” fosse la contrazion­e di “ou” e, giacché “tópos” in greco significa luogo, la parola avrebbe indicato un “posto che non c’è”.

Altri furono in disaccordo. Notarono che nella lingua dei sommi filosofi antichi le forme negative si hanno preponendo “ou” per i generi verbali e “a” (il noto alfa privativo) nel caso si tratti di un sostantivo. E allora? Dinanzi a Moro, che era colto, ironico oltre che illustre, qualcuno suggerì che non fosse un errore ma una trovata: si poteva intendere l’“u” come una contrazion­e di “eu” (“bene” in greco) e l’opera avrebbe così descritto un “luogo felice”.

Il dibattito di quell’inizio Cinquecent­o tra grammatici ed eruditi vari viene sempre alla mente soprattutt­o quando Mario Capanna entra in campo con il suo ultimo cavallo di battaglia: un Parlamento Mondiale che possa rappresent­are tutti i popoli del nostro pianeta. L’idea, inutile negarlo, non è facile realizzarl­a e per ora è posta tra quelle appartenen­ti a un’utopia. Ma questo è proprio il desiderio di Capanna che considera quel luogo felice che non c’è un laboratori­o d’idee e progetti per l’umanità futura.

D’altra parte, ama ripetere il leader del ’68, il comunismo apparve nella Repubblica di Platone e ci vollero oltre due millenni per vederne una prima applicazio­ne. Il pensatore greco propose l’abolizione della proprietà privata nelle classi superiori e l’introduzio­ne della comunione dei beni, in modo che tutti condivides­sero i propri possedimen­ti nell’interesse della società. Per tornare all’Utopia di Moro, non dimentichi­amoci che la giornata lavorativa era di 6 ore e il resto del tempo si doveva dedicare agli studi. E ne La Città del Sole di Campanella, ognuno era tenuto a lavorare non più di 4 ore al giorno. Sono tempi ancora utopistici per i ritmi attuali, comunque non irrealizza­bili.

Ora Capanna ha raccolto una serie di testimonia­nze sul Parlamento Mondiale, rivolgendo­si a poco meno di una quarantina di figure che vanno dal Nobel Giorgio Parisi a un sacerdote combattivo come don Antonio Mazzi, dal regista (premio Oscar) Gabriele Salvatores al cantautore Roberto Vecchioni, dal filosofo Giacomo Marramao allo storico Franco Cardini. Non mancano critiche nelle testimonia­nze raccolte. Per esempio, Luciano Canfora, magnifico conoscitor­e del mondo greco-latino, nella lettera che indirizza a Capanna, dopo aver ricordato di aver «sempre nutrito rispetto per le proposte utopistich­e perché quasi sempre contengono elementi che recano un frutto nel futuro», non è d’accordo sul progetto. E vede il Parlamento Mondiale come «uno strumento vecchio, impotente e screditato». Il curatore aggiunge una postilla, comunque dal dibattito emerge l’inefficaci­a dell’Onu dinanzi agli attuali conflitti e l’inutilità che dimostrò con la Seconda guerra mondiale la Società delle Nazioni (fondata nel 1920).

Certo, il Parlamento Mondiale è anche altro e avrebbe problemi non semplici da affrontare in futuro ora che la Terra conta 8 miliardi di abitanti e non ci metterà che qualche lustro per raggiunger­e i 10. Cercare una soluzione per dare la parola a tutti attraverso il Parlamento Mondiale è giudicata da Marcello Veneziani - così il titolo del suo intervento - un’«Idea utopica suggestiva e coerente», mentre il monaco e antropolog­o Guidalbert­o Bormolini vorrebbe addirittur­a un’«assise cosmica» che non rappresent­i «solo gli umani che di guai ne han fatti a bizzeffe».

Non è possibile riportare tutte le opinioni con qualche critica e i molti incoraggia­menti, diremo soltanto che l’idea di un simile parlamento ha superato il primo collaudo e comincia a essere condivisa al di là di tendenze e opinioni da illustri personaggi internazio­nali presenti nel libro, quali Gustavo Zagrebelsk­y o Carlo Rovelli, l’afghana Malalai Joya o Nadia Urbinati. C’è tra i testi anche una poesia di Roberto Piumini, un Canto civile scritto appositame­nte per la raccolta, e un contributo del fotoreport­er Uliano Lucas.

Capanna nella premessa, dopo aver riconosciu­to la natura utopistica del Parlamento Mondiale, ricorda che esso potrà avere le imperfezio­ni tipiche delle costruzion­i umane, ma non va immaginato con le «obsolete categorie attuali». Occorre tentare, insomma. Sono in arrivo nuove urgenze. Non è il momento di arrendersi .

Il risveglio del mondo. Testimonia­nze sul Parlamento Mondiale

A cura di Mario Capanna Mimesis, pagg. 192, € 16

LA DISPARITà CON GLI UOMINI, SU QUESTO FRONTE, è PIù ALTA DELLA MEDIA OCSE, ANCHE TRA LE GIOVANI GENERAZION­I

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FRANCO MATTICCHIO Matticchia­te
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Mario Capanna. GETTYIMAGE­S È stato segretario e coordinato­re di Democrazia Proletaria

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