ALFABETIZZARSI ALLA FINANZA
Le italiane hanno scarsa familiarità con i concetti finanziari di base: conoscerli è fondamentale per la loro autonomia
Un fatto eclatante sul quale si riflette troppo poco è l’elevata frazione di italiani adulti - in maggioranza donne - che non è economicamente indipendente e finisce così per non essere pienamente libera in molte fondamentali dimensioni, individuali e sociali, della vita. Oltre alle donne, il problema riguarda oggi un numero crescente di giovani, di entrambi i generi: spessissimo privi di vera autonomia finanziaria, finiscono così per dipendere economicamente dalle decisioni di altri soggetti e istituzioni, pubbliche o private, dal loro paternalismo, dalla loro generosità; dal loro predominio. Ne derivano fragilità finanziaria e rischi di violenza psicologica e/o fisica. Certo, la società e le leggi hanno fatto importanti passi avanti verso l’uguaglianza dei generi ma non attribuiscono ancora adeguato valore sociale all’indipendenza economica, talvolta legittimando forme di subordinazione di donne e giovani, talaltra rifugiandosi in interventi di solidarietà come rimedio, a posteriori, per le discriminazioni esercitate a priori.
Quella delle donne, in particolare, è una lunghissima storia di subordinazione al potere maschile, in famiglia e nella società, alla quale ha fatto seguito, soprattutto dall’inizio del Novecento, un percorso di emancipazione, spinto dalla determinazione di superare le disparità, di conquistare sfere di autonomia e di libertà, di accedere all’istruzione e all’esercizio democratico del potere. In Italia, più che in altri Paesi simili per storia e livello di libertà democratiche, l’impronta del passato continua però a segnare la società determinando ancora oggi attriti e ostacoli a un’uguaglianza davvero completa.
Nelle società moderne, l’indipendenza finanziaria femminile deriva dalla partecipazione alla vita economica e perciò dal lavoro e dalla sua retribuzione, certo non più dalla dote famigliare, un tempo riconosciuta al marito perché “si prendesse cura della moglie”. Si costruisce fin dalle prime fasi del ciclo di vita, particolarmente nella sfera educativa, dove nelle giovani generazioni la percentuale di donne laureate supera nettamente quella degli uomini, ma dove molte ragazze sono ancora spinte a scegliere percorsi formativi “deboli” che conducono a un lavoro complementare rispetto a quello del futuro compagno “capofamiglia”.
L’indicatore più chiaro di questa carenza di autonomia economica - più dei divari educativi e retributivi, in lenta via di superamento - è rappresentato dal tasso di occupazione femminile, dove l’Italia si situa strutturalmente al penultimo posto in Europa (davanti soltanto alla Grecia), con una percentuale - nell’anno 2021, segnato dalla pandemia ma anche dal blocco dei licenziamenti - del 49% a fronte del 67% maschile, a sua volta basso nel contesto europeo. Solo in parte la differenza è spiegata dal maggiore tasso femminile di disoccupazione (11 contro 9%): la “parte del leone” la fa, infatti, la più bassa partecipazione delle donne al mercato del lavoro, 55 contro 73 per cento. In valori assoluti, il numero delle donne di età compresa tra i 15 e i 64 anni (età attiva) si attesta sui 18.8 milioni, superiore di poche decine di migliaia di unità a quello degli uomini; più di 8 milioni di donne, però, non partecipa al mercato del lavoro, contro meno di 5 milioni di uomini (in genere giovani o pre-pensionati). Il problema assume una connotazione drammatica nel Mezzogiorno, dove solo una donna su tre risulta occupata (è verosimile, peraltro, che il lavoro in nero attenui le conseguenze in termini di povertà ma non necessariamente di autonomia).
Le politiche a favore dell’occupazione femminile, giustamente basate sul principio di parità, hanno tenuto in secondo piano il tema dell’autonomia economico-finanziaria. È possibile che quest’impostazione derivi da una cultura più improntata all’affermazione giuridica dei diritti che non alla realizzazione pratica delle libertà economiche, due prospettive peraltro inscindibili nelle società liberal-democratiche, da riconoscere egualmente a uomini e donne. È il faticoso percorso che ha portato le donne ad affrancarsi dall’essere anzitutto destinate a “lavori di cura” all’interno della famiglia, spesso “allargata” a più generazioni; lavori ai quali le donne erano (e ancora sono) indirizzate e preparate sin da bambine.
Per recuperare questa prospettiva, il ruolo dell’educazione finanziaria di base è fondamentale. In tutti i Paesi, anche quelli avanzati, le donne mostrano, infatti, una minore famigliarità con i concetti base dell’economia e della finanza. L’Italia non fa eccezione, situandosi, anche in questo ambito, in posizione relativamente arretrata. La disparità di “alfabetizzazione finanziaria” – perché di questo si tratta - tra uomini e donne è un po’ più alta della media Ocse e, cosa anche più grave, si conferma tra le generazioni più giovani. Una recente indagine di Standard&Poor’s, indica come finanziariamente alfabetizzato in Italia solo il 37% delle donne contro il 45% degli uomini, mentre le medie Ocse sono rispettivamente 49 e 56 per cento. Eppure è ormai ampiamente dimostrato che la padronanza di concetti come il tasso di interesse (semplice e composto), l’inflazione, la diversificazione del rischio sia indispensabile per scelte responsabili nel corso della vita e per comprendere le conseguenze, almeno di medio termine, delle decisioni prese in un dato momento, per esempio riguardo al percorso formativo, all’impiego dei propri risparmi, all’accensione di un debito per spese durevoli o un mutuo per la casa o un’attività professionale, alla partecipazione a un fondo pensioni.
Per conquistare autonomia economica, le donne non possono oggi fare a meno di queste conoscenze. Si tratta di un bagaglio minimo che non soltanto ne favorisce l’inclusione e la sicurezza finanziaria e riduce l’ansia, il rischio di povertà e subordinazione e permette anche di meglio comprendere e valutare le implicazioni economiche delle politiche pubbliche. E, perché no, delle promesse elettorali: è necessario capire se un programma elettorale favorisce l’aumento delle opportunità di una o più fasce della popolazione; se è finanziariamente sostenibile oppure se si tradurrà in debito che andrà ripagato negli anni a venire; quanto inciderà sulle nostre vite e sull’ambiente; distinguere le promesse vacue dalle possibilità concrete che abbiamo a disposizione come società. Elementi importanti oggi più che mai, considerando gli appuntamenti elettorali che ci attendono e le sfide poste da un mondo sempre più a corto di risorse naturali e di tempo per imparare a gestirle nel rispetto della terra che ci ospita.
Quando apparve nel 1516 a Lovanio il libretto di Tommaso Moro intitolato Utopia si accese una disputa tra gli umanisti. Alcuni sostennero che l’iniziale “u” fosse la contrazione di “ou” e, giacché “tópos” in greco significa luogo, la parola avrebbe indicato un “posto che non c’è”.
Altri furono in disaccordo. Notarono che nella lingua dei sommi filosofi antichi le forme negative si hanno preponendo “ou” per i generi verbali e “a” (il noto alfa privativo) nel caso si tratti di un sostantivo. E allora? Dinanzi a Moro, che era colto, ironico oltre che illustre, qualcuno suggerì che non fosse un errore ma una trovata: si poteva intendere l’“u” come una contrazione di “eu” (“bene” in greco) e l’opera avrebbe così descritto un “luogo felice”.
Il dibattito di quell’inizio Cinquecento tra grammatici ed eruditi vari viene sempre alla mente soprattutto quando Mario Capanna entra in campo con il suo ultimo cavallo di battaglia: un Parlamento Mondiale che possa rappresentare tutti i popoli del nostro pianeta. L’idea, inutile negarlo, non è facile realizzarla e per ora è posta tra quelle appartenenti a un’utopia. Ma questo è proprio il desiderio di Capanna che considera quel luogo felice che non c’è un laboratorio d’idee e progetti per l’umanità futura.
D’altra parte, ama ripetere il leader del ’68, il comunismo apparve nella Repubblica di Platone e ci vollero oltre due millenni per vederne una prima applicazione. Il pensatore greco propose l’abolizione della proprietà privata nelle classi superiori e l’introduzione della comunione dei beni, in modo che tutti condividessero i propri possedimenti nell’interesse della società. Per tornare all’Utopia di Moro, non dimentichiamoci che la giornata lavorativa era di 6 ore e il resto del tempo si doveva dedicare agli studi. E ne La Città del Sole di Campanella, ognuno era tenuto a lavorare non più di 4 ore al giorno. Sono tempi ancora utopistici per i ritmi attuali, comunque non irrealizzabili.
Ora Capanna ha raccolto una serie di testimonianze sul Parlamento Mondiale, rivolgendosi a poco meno di una quarantina di figure che vanno dal Nobel Giorgio Parisi a un sacerdote combattivo come don Antonio Mazzi, dal regista (premio Oscar) Gabriele Salvatores al cantautore Roberto Vecchioni, dal filosofo Giacomo Marramao allo storico Franco Cardini. Non mancano critiche nelle testimonianze raccolte. Per esempio, Luciano Canfora, magnifico conoscitore del mondo greco-latino, nella lettera che indirizza a Capanna, dopo aver ricordato di aver «sempre nutrito rispetto per le proposte utopistiche perché quasi sempre contengono elementi che recano un frutto nel futuro», non è d’accordo sul progetto. E vede il Parlamento Mondiale come «uno strumento vecchio, impotente e screditato». Il curatore aggiunge una postilla, comunque dal dibattito emerge l’inefficacia dell’Onu dinanzi agli attuali conflitti e l’inutilità che dimostrò con la Seconda guerra mondiale la Società delle Nazioni (fondata nel 1920).
Certo, il Parlamento Mondiale è anche altro e avrebbe problemi non semplici da affrontare in futuro ora che la Terra conta 8 miliardi di abitanti e non ci metterà che qualche lustro per raggiungere i 10. Cercare una soluzione per dare la parola a tutti attraverso il Parlamento Mondiale è giudicata da Marcello Veneziani - così il titolo del suo intervento - un’«Idea utopica suggestiva e coerente», mentre il monaco e antropologo Guidalberto Bormolini vorrebbe addirittura un’«assise cosmica» che non rappresenti «solo gli umani che di guai ne han fatti a bizzeffe».
Non è possibile riportare tutte le opinioni con qualche critica e i molti incoraggiamenti, diremo soltanto che l’idea di un simile parlamento ha superato il primo collaudo e comincia a essere condivisa al di là di tendenze e opinioni da illustri personaggi internazionali presenti nel libro, quali Gustavo Zagrebelsky o Carlo Rovelli, l’afghana Malalai Joya o Nadia Urbinati. C’è tra i testi anche una poesia di Roberto Piumini, un Canto civile scritto appositamente per la raccolta, e un contributo del fotoreporter Uliano Lucas.
Capanna nella premessa, dopo aver riconosciuto la natura utopistica del Parlamento Mondiale, ricorda che esso potrà avere le imperfezioni tipiche delle costruzioni umane, ma non va immaginato con le «obsolete categorie attuali». Occorre tentare, insomma. Sono in arrivo nuove urgenze. Non è il momento di arrendersi .
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Il risveglio del mondo. Testimonianze sul Parlamento Mondiale
A cura di Mario Capanna Mimesis, pagg. 192, € 16
LA DISPARITà CON GLI UOMINI, SU QUESTO FRONTE, è PIù ALTA DELLA MEDIA OCSE, ANCHE TRA LE GIOVANI GENERAZIONI