L’ARTICO PIENO DI VITA CHE RISCHIA DI SPARIRE
I pescatori delle Lofoten, i minatori delle Svalbard e i Sami, l’ultimo popolo indigeno d’Europa: gli intensissimi scatti di Valentina Tamborra, esposti a Roma, narrano un mondo estremo e fragile
Approdato dopo quattro mesi alla deriva sull’isola deserta di Sandøya, nell’arcipelago norvegese delle Lofoten, e qui soccorso da pescatori della più meridionale isola di Røst, il mercante e patrizio veneziano Pietro Querini nel 1432 descriveva sul diario di bordo i luoghi dove aveva fatto naufragio: «Per tre mesi all’anno, cioè dal giugno al settembre, non vi tramonta il sole, e nei mesi opposti è quasi sempre notte (...). Gli isolani, un centinaio di pescatori, si dimostrano molto benevoli et servitiali, desiderosi di compiacere più per amore che per sperar alcun servitio o dono all’incontro». A proposito di coloro che l’avevano tratto in salvo insieme a soli 16 marinai superstiti annotava ancora: «vivevano in una dozzina di case rotonde, con aperture circolari in alto, che coprono con pelli di pesce; loro unica risorsa è il pesce che portano a vendere a Bergen. (…) Prendono fra l’anno innumerabili quantità di pesci, e solamente di due specie: l’una, ch’è in maggior anzi incomparabil quantità, sono chiamati stocfisi; l’altra sono passare (...). I stocfisi seccano al vento e al sole senza sale, e perché sono pesci di poca umidità grassa, diventano duri come legno. Quando si vogliono mangiare li battono col roverso della mannara, che gli fa diventar sfilati come nervi, poi compongono butiro e specie per darli sapore: ed è grande e inestimabil mercanzia». Querini riprese il mare quattro mesi dopo carico di stoccafissi: da allora una prelibatezza veneziana.
A ritroso, partendo dal diario del naufragio custodito nella Biblioteca apostolica vaticana - con un passaggio al mercato ittico di Rialto, dove il pesce tranciato riluce livido all’alba in uno scatto i cui toni e colori preludono a quelli che suscitano i raggi sempre obliqui del Nord - Valentina Tamborra è tornata su quegli «scogli» abitati da «uomini purissimi e di bello aspetto, e così le donne», dove ancora oggi come allora si secca al vento un merluzzo, lo skrei, da cui il titolo della mostra omonima, al Museo di Roma in Trastevere fino al 4 settembre (il 3 alle 17 c’è una visita guidata).
Se ne vedono a centinaia stagliarsi appesi a ceppi contro un’aurora boreale verde vorticante, immortalati insieme alle giornate e alle nottate dei pescatori, in mare e su isole disegnate dal vento, un vento che entra nelle fotografie attraverso il caotico turbinare dei gabbiani. Questo stile di vita plurisecolare potrebbe scomparire da un giorno all’altro se il riscaldamento climatico provocasse un cambio nelle rotte migratorie dello skrei o ne impedisse la lavorazione tradizionale: «se il vento è più caldo e umido il pesce non secca, marcisce» spiega Tamborra.
Porta ancora più a Nord, nel lento avvicendarsi di notti senz’alba e giorni senza tramonto che avvolgono l’arcipelago delle Svalbard, il secondo reportage della fotografa milanese: Mi Tular - Io sono il confine, anch’esso esposto a Trastevere. Così difficile da catturare, la bellezza maestosa e delicata dell’Artico emerge dagli scatti di questo paesaggio alieno, dominato com’è dall’erosione glaciale, dove 2500 abitanti si spartiscono il territorio con 3500 orsi polari sempre più affamati per lo scioglimento del loro habitat. Pur limitate nello spazio che possono inquadrare e nei dettagli che possono rendere, le fotografie di Tamborra riescono a trasportare in quei luoghi dove ci si perde ad osservare quanti bianchi ci possano essere nel bianco, e quanto numerose siano le gradazioni differenti per andare dal colore della neve al pallido azzurro del cielo, al grigio del mare, delle nubi, o al bruno del fango, dei rami spogli degli arbusti o dei palchi delle renne che a questi si intrecciano sullo sfondo di falsipiani immacolati. Una bellezza delicatissima, fatta di toni tenui e sfumature che negli scatti diventa sorprendentemente intensa.
Ai paesaggi rarefatti si alterna quello umano: il fuoco e il ghiaccio, il languore dei volti di alcuni degli abitanti di Spitsbergen: minatori e minatorimusicisti o scrittori, allevatori di cani da slitta, ricercatori, filosofi-idraulici, pompieri, guide, maestri di 40 nazionalità - norvegesi, tedeschi, francesi, italiani, russi, ucraini, cileni e thailandesi.
Ma l’apoteosi di questi reportages dall’Artico è quello non ancora pubblicato, il terzo della Trilogia del silenzio (il titolo è provvisorio) cui la fotografa ha lavorato 4 anni: Ákhát - TerraMadre, che abbiamo visto in anteprima. Riguarda i Sami, l’ultimo popolo indigeno d’Europa, e annovera alcuni scatti sulla vita e sulle tradizioni dei nomadi che ci paiono assolutamente inediti, oltre che splendidi (come quello mostrato in esclusiva in questa pagina, testimonianza di feste sontuose in cui le maschere rendono omaggio alla madre terra). «Dai pescatori delle Lofoten, ai minatori delle Svalbard, ai nativi del Finnmark: ho voluto ritrarre le persone che vivono immerse nel silenzio, e di cui si sa poco, anche a causa di un’idea del Nord come luogo desolato e freddo, dove la vita non esiste» spiega Tamborra. Stili di vita, culture sempre più minacciate dal surriscaldamento del pianeta e dalla fame mineraria che fa fiorire velenose miniere nelle terre ancestrali solcate da nuove strade che alterano le rotte migratorie degli animali. «Il cambiamento climatico, che si riverbera fin qua con conseguenze sempre più evidenti sulla transumanza delle renne e sulle usanze dei nomadi - osserva - è anche una perdita identitaria. È una perdita di cultura, tradizioni, modi di fare. E questo avviene ovunque, tra i minatori delle Svalbard, i pescatori delle Lofoten, i Sami: scivolano sempre più nel silenzio, che è dimenticanza e oblio. Il mio è un racconto fotografico per mostrare che questa realtà esiste. Lottiamo perché continui ad esistere!»