METTERE UN ARGINE ALLA SICCITà E ALLE INONDAZIONI
Questi mesi di siccità ci rivelano un fatto che, forse, abbiamo dimenticato: l’acqua importa, anche per la società di oggi, la più tecnologica della storia. La sua distribuzione sul territorio è un fattore determinante per la condizione umana. Il Po in secca, il Mare Adriatico che si riprende il suo delta, gli agricoltori in difficoltà ci ricordano quanto la nostra vita economica e la nostra identità siano legate a questa sostanza.
Il nostro rapporto con l’acqua è un lascito di oltre diecimila anni fa, quando alcune comunità del Levante diventarono sedentarie. Costruirono case, ararono campi, e così facendo, per la prima volta, affrontarono un mondo di acqua che si muoveva attorno a loro. Da quel punto, fu necessario ingegnerizzare il territorio. L’acqua doveva essere spostata da dove si trovava a dove serviva, raccogliendola quando pioveva per poi rilasciarla quando dal cielo non scendeva nulla. I contorni del paesaggio cambiarono per far posto ad argini e canali, a protezione dalla forza distruttiva delle inondazioni.
Trasformare il territorio in questo modo era, ed è tutt’ora, un esercizio di potere: qualcuno decide dove mettere gli argini o le dighe, e coordina le risorse sociali in funzione di un’azione collettiva. In questo senso la gestione dell’acqua è soprattutto un atto politico. Ma poiché modificare il territorio in questo modo incoraggia la popolazione a vivere sempre più vicina all’acqua, all’ombra di strutture che ne garantiscono la sicurezza, è inevitabile che si instauri un rapporto dialettico tra acqua e società.
L’acqua è molecola complessa. Tra le sue molte proprietà, ha anche quella di essere uno straordinario vettore per l’energia nelle sue transizioni di fase. L’acqua assorbe energia per riscaldamento solare evaporando dalla superficie terrestre. Trasferisce poi quest’energia all’atmosfera quando condensa in pioggia per poi precipitare a terra. Questo trasferimento di energia è il carburante dei moti atmosferici del pianeta. Senz’acqua, l’atmosfera del pianeta si muoverebbe in maniera piuttosto anemica, rispondendo solo alla differenza di temperatura tra il polo e l’equatore. Ma un pianeta coperto d’acqua produce una straordinaria molteplicità di fenomeni potenti e vigorosi.
Questi fenomeni alimentati dall’acqua trascendono le dimensioni dell’individuo. Hanno scale geografiche planetarie. Il monsone indiano, i deserti del Sahara e Kalahari, i cicloni e anticicloni delle medie latitudini, gli uragani e i tifoni dell’Atlantico e del Pacifico sono tutti fenomeni idrici, legati alla distribuzione dell’acqua sul pianeta. E questi sono i fenomeni che, sotto condizioni estreme, portano eventi catastrofici, dalla siccità e la desertificazione alle piogge stagionali e inondazioni. Questo è il clima. Il comportamento dell’acqua sul pianeta non è altro che la sua espressione sul territorio, il suo principale agente.
Affrontare questi fenomeni straordinari richiede un’organizzazione sociale che permetta alla collettività di esprimere la propria forza sul territorio in opposizione a quella del clima. È con questo potente agente planetario che abbiamo sviluppato una relazione millenaria, creando infrastrutture e istituzioni per gestirlo, convertendo l’idrologia del paesaggio in un’idraulica funzionale alla nostra vita economica. Per millenni, il fatto che l’economia fosse dominata dall’agricoltura - l’attività umana che più di ogni altra dipende dall’acqua, di fatto convertendola in cibo - ha garantito all’acqua e alla nostra relazione con essa centralità politica. Tutto nella vita delle società agrarie dipende dalla gestione dell’acqua.
Poi è successo un fatto straordinario. Nel ventesimo secolo, abbiamo ampliato la nostra idraulica raggiungendo dimensioni senza precedenti al servizio di un’economia industrializzata. Abbiamo trasformato i fiumi delle montagne in grandi centrali idroelettriche, e incanalato quelli della pianura fino a non vederli quasi più. Dighe, argini e canali hanno reso l’acqua invisibile. Tutti o quasi vivono la loro vita al solo ritmo del consumo, senza interferenze da fenomeni climatici che hanno invece dominato la nostra storia millenaria. Nessuno guada un fiume andando al lavoro o si preoccupa di dove trovare l’acqua, che invece esce da un rubinetto. Poco importa che quasi nessuno sappia da dove venga. Viviamo in un’illusione di controllo totale, avendo ormai dimenticato la potenza di ciò che stiamo cercando di controllare.
Ma è un’illusione che, come la siccità di questi mesi dimostra, si sta frantumando. Il clima sta cambiando, e con esso il comportamento dell’acqua, suo agente sul territorio. La nostra storia con l’acqua è millenaria, dinamica e dialettica. Ogni volta che la sua distribuzione nello spazio e nel tempo cambia, si lascia indietro le istituzioni e infrastrutture che avevamo costruito per gestirla, spingendoci a cambiare noi stessi. La nostra storia con l’acqua si è ora rimessa in moto. Quale direzione prenderà dipenderà da come cambia il clima e da come sceglieremo di rispondere. Questo è il patto, ineludibile, che abbiamo sottoscritto con il pianeta e la natura che ci circonda quando siamo diventati sedentari migliaia di anni fa. nell’ambito della XIX edizione del Festival della Mente (2-4 settembre), rassegna, promossa dalla Fondazione Carispezia e dal Comune di Sarzana, e diretta da Benedetta Marietti. Il tema del 2022 è il movimento. La lectio inaugurale è di Filippo Grandi. Tra gli ospiti: Edoardo Albinati, Adriana Albini, Maurizio Cheli, Lilia Giugni, David Grossman, Mariangela Gualtieri, Carlo Alberto Redi. Due le trilogie: una di Alessandro Barbero e una di Matteo Nucci.