NOVECENTO OSCURO ILLUMINATO DA MUTI
Il «Trittico» di Puccini viene stravolto dalla direzione di Welser-Möst e dalla regia di Loy, mentre Barrie Kosky coglie il nodo essenziale di «Káťa Kabanová». La punta più alta rimane il Concerto di Ferragosto con Čajkovskij
«Caro Illica, rimane l’altra, Il Tabarro, per la quale io insisto […] Ma a questa macchia rossa bisogna contrapporre una cosa opposta: è questa ch’io cerco: che ci sia elevazione e agio di far musica che voli»: così Puccini scriveva al librettista piacentino nel 1913. Ma già da anni pensava a uno spettacolo dove fossero presenti «il tragico e sentimentale mescolati al comico». Nasce così Il trittico, di cui al Festival di Salisburgo si altera l’ordine drammaturgico intensamente voluto da Puccini: per primo il comico Gianni Schicchi (terzo in origine), poi il drammatico Tabarro (primo), quindi la lirica Suor Angelica (secondo). Terminiamo cioè la serata con il suicidio di una monaca, seguito da figlioletto resuscitato, invece che concludere con la burla, dopo uno spumeggiante concertato di tutti gli undici personaggi che sembrano provenire dalla Commedia dell’Arte.
Le motivazioni offerte dal regista Christof Loy e dal direttore Franz Welser-Möst non convincono; pensiamo invece che la frequentazione sporadica di questo lavoro possa generare equivoci interpretativi. Al Festival non è mai stato rappresentato (!); anche la Filarmonica di Vienna (qui in buca) non lo eseguiva da trent’anni. Siamo invece al culmine della maturità di Puccini, autore che viene frainteso da Welser-Möst come verista. Frattanto, nella regìa, gli stereotipi abbondano: alla veglia funebre, che apre Schicchi, i parenti si abbuffano di spaghetti. La gestualità è caricaturale e le luci non “raccontano”, drammaturgicamente (Strehler, ritorna!). Trionfa la soprano Asmik Grigorian, che conclude appunto con la grande scena drammatica di Suor Angelica.
Il Festival ci fa riflettere su analoghi percorsi primo-novecenteschi. Negli anni del Trittico (1918) il moravo Leoš Janáček, coevo e ammiratore di Puccini, lavora a una delle sue maggiori opere, Káťa Kabanová; e l’ungherese Béla Bartók, di una generazione successiva, ha da poco scritto Il castello del principe Barbablù.
Allo schiudersi del velario nella Káťa una fila di persone ci dà le spalle; sono contro la parete di fondo, immobili, silenzio dell’orchestra. Buio. Luce di nuovo, una donna si stacca dal gruppo, corre come un uccellino uscito dalla gabbia, ma si infrange contro l’incombente pietra della parete. Scendono i riflettori, mettendo sempre più a fuoco le relazioni in questa famiglia disfunzionale. La regìa di Barrie Kosky ci ha fatto così subito cogliere il nodo essenziale dell’opera, la comunità che volta le spalle a Káťa. Grande successo per la protagonista Corinne Winters e per il direttore Jakub Hrůša, che noi italiani conosciamo come Direttore Ospite Principale dell’Orchestra di S. Cecilia.
La luce “racconta” anche le dinamiche della folie à deux del Barbablù, che vengono icasticamente rappresentate dal regista Romeo Castellucci con lame di vero fuoco nel buio totale. Sono le emozioni che bruciano in Judith, la nuova moglie del duca. Solo alla settima e finale porta (dietro cui ci sono le precedenti) il palcoscenico (il Castello) si svela, nella sua spoglia crudezza. Per poco – poi, di nuovo, il buio. Sul podio Teodor Currentzis, con cui ci addentriamo in questo Castello espressionista, sospeso, misterioso, con dialoghi in pianissimo tra violoncelli, contrabbassi e clarinetto basso.
Il Concerto di Ferragosto è sempre stato uno dei momenti più alti del Festival; prerogativa di Karajan, con la Filarmonica di Vienna. Dopo la sua morte nel 1989 il testimone è passato a Riccardo Muti, le cui presenze (272) al Festival sono seconde solo al direttore austriaco. Guardando ai programmi scelti per il Ferragosto, osserviamo che negli ultimi anni il direttore approfondisce la meditazione spirituale: nel 2018 la Messa D. 950 di Schubert, nel 2019 il Requiem verdiano, nel 2020 la Nona di Beethoven, del medesimo autore nel 2021 la Missa solemnis (“la Cappella Sistina della musica”, come la definisce Muti).
Proseguendo quest’anno con quello che è una sorta di requiem - la Patetica di Čajkovskij, dove subito il direttore, con il fraseggio e le tinte tra fagotto, viole e contrabbassi in apertura, ha dischiuso l’oscura notte in cui ci conduce il compositore. È seguito l’ultimo poema sinfonico di Liszt ( Dalla culla alla tomba), concludendo trionfalmente con il canto dei cherubini nel Prologo in cielo dal Mefistofele di Boito. Standing ovation per un’interpretazione dove ogni nota è stata “detta”, nell’intesa eccellente fra i musicisti.
Festival di Salisburgo Salisburgo, varie sedi Fino al 31 agosto salzburgfestival.at