SCHRADER E SCORSESE CONTRO IL MONDO COSì COM’è
Paul Schrader, cui la Mostra del cinema tributa il Leone d’oro alla carriera, ha un lungo e importante percorso alle spalle, sceneggiatore e regista della “nuova Hollywood” affermatasi negli anni Settanta ma nel modello di un cinema povero e avventuroso, come quello di Roger Corman. Schrader ha vissuto quest’avventura a fianco, a New York, di un amico di talento e lucidità straordinari, Martin Scorsese, segnati entrambi dal cinema dell’infanzia e adolescenza. Univa Schrader a Scorsese un’inquietudine morale fondata però su una diversa formazione etnica e religiosa, la famiglia di Schrader rigorosamente calvinista e quella di Scorsese decisamente cattolica, “italica”.
Schrader ha scritto per Pollack e De Palma, affermandosi entrambi con un capolavoro provocatorio e non conciliante e però di narrazione controllata e di perfetto dominio tecnico, Taxi Driver (1976). E pagine davvero belle (pubblicate da Donzelli) sui grandi registi “della trascendenza”, Dreyer, Ozu, Bresson, ma, come Scorsese, non si è mai liberato del naturalismo americano. Al di là della vita di Scorsese e Schrader, vasto romanzo ospedaliero, è ancora una riflessione sul bene e sul male e sul loro conflitto dentro la società e dentro ogni individuo, un ritorno non sempre cosciente a Dostoevskij che nasceva dalla constatazione della sconfitta delle illusioni progressiste e “democratiche” di una società, basata sul denaro e sull’alleanza dei suoi accaparratori con la peggiore malavita. Quel che altrove tentavano di affrontare con linguaggi nuovi le composite e avide nouvelles vagues di tanti Paesi (ma poco in Italia, con le rare fuoriuscite di Bellocchio, Bertolucci, Ferreri e, volutamente dai margini, di Ciprì e Maresco) nel cinema americano lo fecero autori che furono nonostante tutto fedeli a modelli del cinema classico, soprattutto noir e gangsteristico, nella ricerca di un dialogo con il pubblico più vasto. In modi diversi da quelli di Scorsese e Schrader, penso a Penn o a Peckinpah, che credevano ancora alle grandi lezioni sociologiche dei Riesman e dei Wright Mills e alle loro spalle di Edmund Wilson o Dwight Macdonald, e più tardi di Christopher Lasch, più freddo e lucido di loro, da studioso e non da artista. La grandezza di Schrader (e di Scorsese) sta nella loro autonomia di artisti-intellettuali nati non nelle grandi università ma nel “fango delle città”, non lettori dei francofortesi ma dei fumetti e dei romanzi di fantascienza. Forse il film dei due autori, regista e sceneggiatore, che andrebbe rivisto e analizzato, è L’ultima tentazione di Cristo, il più ambizioso di tutti i loro, dove calvinismo e cattolicesimo sembrano essersi dati la mano condividendo disperazione e speranza, religione e utopia, ancora fortissimamente sociale. Di Schrader (come di Scorsese) non finiremo mai di apprezzare il posto che ha nella loro opera la non-accettazione del mondo così come se lo sono trovato davanti, della società e della realtà di cui siamo frutto e in cui siamo immersi, insieme vittime e complici.