UN CANTO DI GUARIGIONE PER I POPOLI NATIVI
IKiowa «misuravano la propria statura dallo spazio che potevano vedere». Nella loro età dell’oro dal Canada discesero fino alle Grandi Pianure, dove il loro sguardo arrivò più lontano di quanto mai avesse potuto spingersi. Lo racconta N. Scott Momaday, figlio di un padre Kiowa, in Casa fatta di alba, uno dei capolavori della narrativa nativo americana. Il romanzo ora ritradotto da Sara Reggiani per Black Coffee, dopo che la vecchia edizione Guanda era divenuta introvabile, prende il titolo dal primo verso di un rituale invernale di guarigione navajo, detto Canto notturno. Vinse il Pulitzer nel 1969, un anno dopo la sua pubblicazione.
Nel leggerlo, la prima cosa che sorprende è proprio lo spazio che le parole dell’autore squadernano. Momaday descrive il paesaggio della sua infanzia in un pueblo navajo tra le pianure e le mesa del Nuovo Messico nei più minuti particolari, anche attraverso odori, suoni, tessiture, oppure con grandi e suggestive pennellate che non trascurano le metamorfosi cui va incontro allo scorrere del tempo, e così facendo lo dilata e lo approfondisce ben oltre il limite della nostra percezione cosciente. Quello che per il nostro sguardo è un panorama in cui perdersi, anzi, lasciarsi andare in un languore indistinto diventa un mondo brulicante e vivo, pieno di cause e effetti che si rincorrono, traboccante bellezza e intelligenza. Che sia il dilagare della mente nella vallata, dove «il silenzio si stendeva come acqua sulla terra», l’eclissarsi delle nubi, il rimbombare del tuono nell’«imbuto» del canyon, la «pioggia fumosa» o l’aria «dura» dell’inverno, o ancora la caccia dei falchi o la danza di corteggiamento delle aquile, c’è una straordinaria precisione nell’osservare e nel nominare, una perspicacia e un lirismo che ricordano il grande scrittore naturalista J. A. Baker.
Leggere Momaday significa vedere con gli occhi degli indiani. E il suo sguardo d’insieme è come quello dell’aquila che «spadroneggia sopra la terra, giungendo più lontano di qualsiasi altra creatura» e fa sì che «tutte le cose di lassù s[ia]no legate fra loro per il fatto che esistono nella perfetta visione di un uccello».
I Kiowa, tuttavia, «nella selva erano curvi e ciechi». Così è Abel, il protagonista di questa storia ambientata negli anni 50 del secolo scorso, dove la selva è quella metaforica della violenza e della modernità. Abel, Abelito per il nonno che lo ha cresciuto alla morte della madre e poi del fratello, rotola giù dalla corriera ubriaco e non riconosce il nonno che lo raccoglie. Sradicato dalla sua terra, annientato dal trauma della guerra che ha combattuto per i bianchi, ferito dalle umiliazioni, allontanato dalla lingua madre con cui poteva trovare un suo posto nel mondo, odia tutto e tutti, sé stesso in primis. È incapace di adattarsi alla vita dei bianchi, che lo chiamano «lunghicapelli», ma è anche incapace di ritrovare nella riserva la pienezza perduta. È «muto» anzi «inarticolato», non più «accordato» alla sua lingua come lo erano invece i vecchi cantastorie che avevano compreso «che nelle parole e nel linguaggio, e lì solamente, poteva[no] esistere completamente e in modo perfetto». Ed è ugualmente distante dall’uomo bianco, che ha «diluito e moltiplicato il Verbo, e le parole hanno iniziato a soffocarlo», rendendolo «sazio e insensibile». Abel è un uomo malato, la cui «mente gli si ritorce contro». Per i bianchi è un matto: davanti a un carro armato fa una danza di guerra e in tribunale non sa spiegare le sue azioni senza attingere alla spiritualità e alla mitologia Kiowa.
Momaday racconta la sofferenza di Abel attraverso un affastellarsi di analessi e un intrecciarsi di voci spesso anonime che disorientano il lettore facendogli provare in prima persona la confusione, lo smarrimento e la fatica del protagonista. E con qualche immagine fortemente simbolica, come quella dell’aquila che Abelito ha catturato e messo in un sacco per un rituale. Di nascosto va a osservarla: «Avvinta e impotente, l’aquila sembrava scialba e informe alla luce della luna, troppo grande e sgraziata per volare. La vista lo riempì di vergogna e di disgusto. Nel buio le afferrò la gola e le mozzò il respiro».
L’immagine ricorda L’albatro di Baudelaire, che probabilmente Momaday conosceva, essendosi addottorato a Stanford in letteratura (inglese e americana), ma al posto del poeta, in lei vediamo rispecchiati i nativi americani. La metafora diviene così più sinistra, per le implicazioni morali, e non solo esistenziali, che rappresenta.
«Vi è un incanto nei boschi senza sentiero/ Vi è un rapimento nella spiaggia solitaria» scriveva George Byron. «Ci sono cose in natura che generano una tremenda quiete nel cuore umano», afferma Momaday. Anche a questo servono le sue splendide descrizioni dell’ambiente dell’infanzia. E a restituire la capacità di guardare lontano, la statura. La pienezza. Nella prefazione, riferendosi ai navajo, l’autore parla di «una cultura antica, nobile e profondamente influenzata da princìpi estetici e spirituali». Ciò che i nativi hanno perso con l’invasione delle loro terre non sono solo diritti politici, status sociale, religione, cultura, ma anche l’ambiente naturale e i loro principi estetici. Che sono fondamentali per la ricerca del sé, come mostra magistralmente Toni Morrison fin dal suo esordio L’occhio più blu, uscito due anni dopo questo libro, nel ’70. Ai nipoti il nonno insegnava a «conoscere il lungo viaggio del sole sulla mesa nera, i suoi spostamenti nelle stagioni e negli anni, e dovevano vivere secondo l’apparire del sole, perché solo così avrebbero saputo dove si trovassero e dove si trovavano tutte le cose nel tempo». La sofferenza che canta Momaday è anche e soprattutto quella per la bellezza perduta. Ricostruendola a parole crea la possibilità di un ritorno, di un ritrovarsi, «correndo oltre il [proprio] dolore». Una storia che ci pare più che mai universale.
Casa fatta di alba
N. Scott Momaday Traduzione di Sara Reggiani Black Coffee, pagg. 238, € 20
CON STRAORDINARIE DESCRIZIONI DELLA NATURA, IL PULITZER CREA ANCHE LA POSSIBILITà DI FARVI RITORNO