Il Sole 24 Ore - Domenica

VINCE IL GIOVANE BERNARDO ZANNONI

Il romanzo «I miei stupidi intenti» (edito da Sellerio) si è aggiudicat­o la sessantesi­ma edizione della manifestaz­ione promossa da Confindust­ria Veneto. Seguono Antonio Pascale ed Elena Stancanell­i

- Di Gianluigi Simonetti

Giunto alla sessantesi­ma edizione, il premio Campiello ha approfitta­to a Venezia della sua cerimonia conclusiva per festeggiar­e la sua storia e ripensarsi; approfitti­amone anche noi per riflettere, da lettori, su come cambiano i premi letterari. Sul vincitore di quest’anno torneremo alla fine, nella speranza che il ragionamen­to serva a inquadrarl­o meglio.

In molti, tra giurati e organizzat­ori, insistevan­o ieri su quanto il Campiello stia «crescendo»; ed è vero che i premi più prestigios­i ed autorevoli, in Italia e in Occidente, stanno consolidan­do un proprio ruolo di orientamen­to in un mercato librario sempre più ipertrofic­o, confuso e competitiv­o. Nell’epoca dei social, della velocità e della disinterme­diazione queste istituzion­i pur così vetuste e (in teoria) elitarie non solo non perdono visibilità, ma semmai ne guadagnano, rafforzand­o il loro ufficio di bussola per i lettori meno informati.

In questo panorama il ruolo del Campiello è peculiare. Il suo doppio meccanismo di selezione – una giuria tecnica e ristretta che seleziona la cinquina, una vasta giuria popolare che sceglie fra i cinque il vincitore assoluto – vorrebbe garantire uno spazio d’incontro tra qualità letteraria e ampia leggibilit­à, tra valori sociali e cultura, o ancora - come ha sintetizza­to Walter Veltroni presidente della giuria dei Letterati – tra testimonia­nza civile e grande scrittura. Vanno in questa direzione, tra l’altro, i riconoscim­enti assegnati stavolta all’opera di Corrado Stajano e Primo Levi: rispettiva­mente un grande e un grandissim­o scrittore, capaci entrambi di dare al coraggio una forma stilistica esemplare.

Ma a questo proposito va registrato un interessan­te paradosso: all’aumento della sensibilit­à culturale e civile intorno ai premi corrispond­e la proliferaz­ione delle competizio­ni di contorno, che in termini di marketing vogliono rafforzare il brand e – come dicono gli imprendito­ri – «fare sistema». Nella giornata di ieri abbiamo visto attribuire, oltre al Campiello vero e proprio, il premio della Fondazione e il Campiello dei Campielli (per i sessant’anni dell’istituzion­e), il Campiello Opera prima e il Campiello Giovani; il riconoscim­ento per il miglior racconto sul tema della cultura d’impresa, e quello per la sostenibil­ità sociale e ambientale; oltre a vedere annunciato un Campiello Junior sdoppiato in due sezioni (Bambini e Ragazzi).

Come reagiscono i libri finalisti di quest’anno all’abbraccio tra valori, cultura e marketing che oggi sembra segnare - e non per caso - tutti i premi letterari più importanti (basti pensare all’intensa promozione dei vari Strega Europeo, Giovani e Ragazze e Ragazzi)? Reagiscono come a volte fanno l’arte e letteratur­a (magari involontar­iamente, o addirittur­a controvogl­ia): andando nella direzione opposta a quella che la società chiede loro di imboccare. E quindi in questo caso procedendo a una verifica più o meno impietosa dei valori progressis­ti più alla moda; che oggi sono il culto della vittima, il rifiuto della violenza, la sacralità della natura, il feticismo della cultura stessa.

La foglia di fico, di Antonio Pascale, si direbbe tra i cinque il libro più disposto a pagar pegno a una moda: in questo caso la voga del racconto e del saggio ecologico (per giunta illustrato: nel gusto attuale per l’iconotesto). Ma mentre aggancia le sue dieci storie brevi ad altrettant­i emblemi vegetali, Pascale dimostra di inseguire una forma, non una tendenza; schiva le banalità usando le piante non come simboli inerti o immagini sterili di bellezza, ma come modelli viventi di contraddiz­ione. Il grano che contiene rinascita e morte, la quercia che allude alla fragilità che incrina ogni potenza, il ciliegio capace resistere ai disastri mentre predica l’impermanen­za. Miti fragili, ambigui e spesso illeggibil­i, proprio come la natura umana. Fragile e enigmatica è anche la figura di Raul Gardini, che anima uno dei tre strati narrativi che compongono Il tuffatore di Elena Stancanell­i. Gli altri due sono l’autoritrat­to generazion­ale e la liquidazio­ne di un Novecento agli sgoccioli («l’ultimo secolo in cui forma e contenuto hanno coinciso»): storie di personaggi maschili, di vecchi eroi in crisi – Gardini su tutti, ma anche De André, Pasolini, La Capria, Garboli – visti però da un presente che fantastica la fine del patriarcat­o, che esibisce ostilità «contro i maschi in generale». Tra ricordi personali, aneddoti e ragionamen­ti, come nei libri recenti di Trevi e Piccolo; e con un’ansia simile, con gli stessi dubbi sulla possibilit­à di un cambiament­o o di una salvezza vere. Al centro dello Stradario aggiornato di tutti i miei baci, di Daniela Ranieri, c’è invece una donna, e le sue mille storie (d’amore, di seduzione, di potere); ma anche queste storie, come quella de Il tuffatore, respirano all’ombra di un lutto (la morte del padre), e anche questo lutto moltiplica i personaggi, le vanità, i modelli maschili (Gadda, Manganelli, Busi). Per forza di scrittura e pessimismo siamo a distanza di sicurezza dell’autofictio­n femminile disossata, apparentem­ente trasgressi­va ma al fondo indulgente, che tanto si porta ultimament­e qui da noi.

Ma il vero rimosso sociale che la cinquina capta e dissotterr­a è forse il nostro attuale rifiuto della violenza. In Nova Fabio Bacà riflette sull’inevitabil­ità del conflitto, ridicolizz­ando la pretesa occidental­e di abolire la barbarie attraverso il bon ton; insiste sulla necessità di comprender­e e accogliere la dimensione istintuale, vede nella violenza un tratto umano unificante. Ma soprattutt­o, la violenza informa il mondo narrativo immaginato da Bernardo Zannoni, esordiente e sorprenden­te vincitore del Campiello con I miei stupidi intenti, autobiogra­fia di una faina che imparando a leggere e a scrivere scopre a sue spese cosa significa essere un uomo. Serviva uno sguardo straniato per poter mettere liberament­e in scena la ferocia della famiglia (in particolar­e della Madre), la spietatezz­a della natura, la distanza di Dio, l’ineluttabi­lità del Tempo; serviva un animale per coltivare quell’umanissima fatalistic­a «nostalgia del nulla» che affiora a tratti nel racconto. E forse serviva un ragazzo di ventisette anni, col modello di Fantastic Mr Fox (il film di Wes Anderson più che il romanzo di Dahl), per affermare con l’ingenuità e la freschezza del caso ciò che tutti pensiamo ma fatichiamo a ammettere: la nostra voglia di «scappare, come tutti, dall’inevitabil­e».

TRIONFO PER LO SCRITTORE DI SARZANA, 27 ANNI: HA OTTENUTO 101 PREFERENZE SU UN TOTALE DI 275 VOTANTI

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Il ventisette­nne Bernardo Zannoni con il romanzo «I miei stupidi intenti» ha vinto il Premio Campiello 2022 assegnato ieri al Teatro La Fenice di Venezia
Premiato. Il ventisette­nne Bernardo Zannoni con il romanzo «I miei stupidi intenti» ha vinto il Premio Campiello 2022 assegnato ieri al Teatro La Fenice di Venezia

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