DUCHAMP A PASSO LENTO
La rassegna dedicata all’autore di provocazioni artistiche rapide e scherzose rivela che, in realtà, lavorava con eccezionale lentezza
Paradossale ma vero: vista oggi, l’opera omnia del padre del concettuale ci appare come un inno alla capacità del fare nel tradurre il pensare. Contrariamente alla vulgata, che lo racconta come autore di scherzetti rapidi e provocatori volti a demolire l’idea di arte, Marcel Duchamp (18871968, nato francese e morto americano) ha sempre agito con lentezza e devozione. La gestazione delle sue poche opere maggiori, che inglobano tutto il resto della sua produzione e che lui stesso riprodusse in piccolo per affollarle in valigie da rappresentante ( Boites en valise), avvenne in un flusso costruito attraverso disegni, schemi, appunti, quadri. È ciò che vediamo nella mostra sull’artista in corso al museo MMK di Francoforte, esplicativa almeno quanto quella tenutasi a Palazzo Grassi di Venezia nel 1993.
La rassegna offre, infatti, una scelta di documenti straordinaria, con caricature dell’artista, articoli e dichiarazioni come quelli sulla rivista «The Blind Man» e fotografie della sua vita, da quando si travestì da caprone usando schiuma da barba a quando si sposò, lui in tight e lei con un tozzo abito corto in contrasto con il lunghissimo strascico; ci sono lettere dalla calligrafia pignola da cui capiamo quanto vasta fosse la rete di relazioni di questo finto solitario e quanto sia stato attivo, anche dopo aver proclamato che avrebbe solo giocato a scacchi.
La fase giovanile è descritta da dipinti di ispirazione dapprima naturalista, poi con citazioni da Matisse e Picasso. Nonostante sia giunto a descrivere il corpo in movimento con la stessa tecnica a strati di Boccioni, Duchamp non ha mai ammesso alcuna influenza futurista: starebbe agli storici italiani (da un secolo) indagare e possibilmente smentire questo punto, giacché le similitudini in pittura sono chiare e anche l’uso dell’oggetto qualsiasi, che entra nel lavoro di Duchamp nel 1913, era stato teorizzato da Boccioni nel 1912.
Passiamo dunque ai “ready made”, così chiamati clonando l’espressione in uno per gli abiti già pronti e non sartoriali. In mostra ci accoglie il famoso Scolabottiglie (1914), l’unico oggetto su cui Duchamp non abbia messo le mani neppure per firmarlo e che dunque, nelle parole dell’autore, non è stato «rettificato». Un grande spazio espone poi tutti gli altri, dalla Ruota di bicicletta (1913) che prende in giro i monumenti con piedistallo, alla pala da neve intitolata In Advance of the Broken Arm, al piccolo dipinto naturalistico sottratto a una farmacia, e per questo intitolato Pharmacy, fino agli attaccapanni di legno che volano come ragni e alla Fountain (1917) che Duchamp cercò invano di esporre alla Società degli artisti indipendenti di New York. Fu fatta sparire dalla giuria contro il regolamento. Epitome della presa in giro di qualsiasi definizione di arte, era un orinatoio maschile ribaltato che Duchamp definì «Buddha del bagno».
Nei “ready made”, che Duchamp non concepì per la vendita e non propose mai come opere d’arte, leggiamo una parte della sua filosofia, quella legata all’idea di indifferenza estetica, etica e ontologica acquisita leggendo nel 1913 lo scettico antico Pirrone. L’idea era che, nell’arte come nella vita, non esistano valori fissi ma solo opinioni probabili, da seguire con un distacco che implica una costante apertura al nuovo. Nella civiltà delle macchine e dopo la crisi di ogni credo, compreso quello psicoanalitico, l’uomo non può che dubitare di tutto.
Tale attitudine “indifferente” e aperta riguardò anche le questioni di genere, come si evince dai ritratti in cui Marcel compare vestito da donna, incluse il rapporto con il denaro, come raccontano i suoi finti buoni del casinò di Montecarlo, e toccò il senso dell’eros: per decenni alcuni critici hanno cercato di dare di Duchamp un’interpretazione alchemica e misterica; questa mostra smentisce un simile approccio, insistendo invece su una visione legata alla concezione del corpo come macchina celibe, ovvero indotta dal desiderio a un moto costante e privo di scopo. Innamorarsi è bello ma insensato.
La supremazia dell’io e nella cultura occidentale, e quindi dell’idea di autore, è stato un altro oggetto di scherno, segnalato dalle identità multiformi che Duchamp si diede: oltre a Rrose Selavy, il suo alter ego femminile, si firmò anche R. Mutt, nome in cui è sottinteso un Richard come “riccastro” in francese.
Nella maturità newyorkese, mentre Marcel lavorava segretamente all’installazione Etant Donnes, creava allestimenti ambientali per mostre di amici, riproduceva i suoi multipli e consigliava Peggy Guggenheim, il suo volto sacrale e sardonico fu “provinato” dalla cinepresa di Andy Warhol come un attore nato e disposto a parti molteplici.
La mostra ci propone anche la genesi e lo sviluppo del suo capolavoro, il dipinto su vetro dal titolo strampalato e traducibile con La sposa messa a nudo dai suoi scapoli, anche. L’opera è fragile e dunque inamovibile al Philadelphia Museum of Art, ma qui è presente nella copia da esposizione realizzata dal pittore inglese Richard Hamilton: il padre inglese della Pop art, che Duchamp ha influenzato per il suo uso di oggetti industriali ma anche per l’iniezione di pensiero logico nella pittura, gli era talmente devoto che ha anche trasformato in un libro i mille appunti e disegni tecnici che hanno accompagnato l’esecuzione del “Grande vetro”.
Dichiarato «definitivamente incompiuto» dopo un lavorio di oltre dieci anni, il dipinto è un’ulteriore ode allo scetticismo: sulla sua superficie fluttua un sistema di corpi stilizzati, macchine in movimento e allusioni blasfeme a una Vergine-insetto, che raccontano come la femmina cerchi i maschi e viceversa in un continuo sbagliare mira e ritentare.
Tutto accade in modo meccanico e spinto da una forza simile a quelle della fisica; ogni determinismo, però, è inficiato dal costante ingresso del caso e del tempo, resi visibili soprattutto dal fatto che, negli spazi del vetro lasciati vuoti dalla pittura, resta la trasparenza e con essa il passaggio di immagini che cambiano continuamente il quadro.
I dipinti a olio su tela che descrivono La sposa (1912) e Il passaggio da vergine a sposa (1912), prosecuzione uno dell’altro ed entrambi del Macinino da caffè (1911) e forse di una Donna in vasca da bagno (1910), dimostrano quanto lungo sia stato mettere a fuoco quel progetto, nel desiderio di fuggire ogni pittura “retinica” volta a colpire l’occhio più che le facoltà raziocinanti.
Duchamp sembra dire che la pittura dell’avanguardia deve venire progettata quanto quella degli antichi maestri, per anni, e come quella trasformare la manualità artigianale in una leonardesca “cosa mentale”. Il suo compito è cogliere i segni rilevanti del vivere, dall’ego in crisi alla centralità del sesso, dall’avanzata dei robot allo scricchiolare della raison illuminista. Per estensione tutta l’arte, comunque la si definisca in teoria (cosa impossibile e del resto irrilevante), ha il compito eccelso, forse sempre e non solo del nostro tempo, di mettere a nudo il dovere di dubitare, di ridere e di meditare. Un pittore può decidere di smettere, come fece Duchamp medesimo, o continuare, sapendo che ciò che fa con le mani esprime domande e non risposte e, soprattutto, racconta il culto del pensiero in lotta contro la nostra parte più istintiva, emozionale, eccitabile, credulona e schiava delle passioni: come ci hanno insegnato Socrate, Seneca e Descartes, occorre usare il cervello.
OGNI IDEA è SVILUPPATA CON UN NOTEVOLE FLUSSO DI PROGETTI, SCHEMI E APPUNTI
Marcel Duchamp 1902-1968
Francoforte, Museum MMK Fino al 3 ottobre