AMADé E IL SEGRETO DEL «MISERERE» NELLA SISTINA
Paiono prender vita nella prosa di Giacomo Cardinali le figurine caricaturali annotate dal grande pittore e incisore Pier Leone Ghezzi nella prima metà del Settecento: il mondo della Roma musicale osservato al microscopio con sguardo impietoso, brulicante d’una miriade di compositori, strumentisti e cantori in servizio stabile o di passaggio nella Città eterna. Su un ambiente specifico, la Cappella pontificia, e su un personaggio che Ghezzi non fece in tempo a immortalare, il quattordicenne Wolfgang Amadé Mozart, si concentra l’attenzione di Cardinali, che, non tanto diversamente da Ghezzi, li rende personaggi d’un racconto lungo, sospeso tra fiction e indagine documentaria, pubblicato nell’elegante veste grafica dei volumetti blu Sellerio. Pretesto della narrazione è il celebre affaire, come lo definisce l’ammiccante sottotitolo, della trascrizione, realizzata a memoria dal genio in erba nell’aprile 1770, del secentesco salmo Miserere di Gregorio Allegri, «poche note, ma sì ben modulate e meglio intese» che la Cappella sistina custodiva come proprietà inalienabile, vietandone la riproduzione manoscritta o peggio a stampa. Un frutto proibito che diventa il simbolo d’un mondo chiuso, geloso e orgoglioso della propria tradizione secolare. Tanto più che la sua fruizione avveniva, durante la Settimana Santa, in un rito suggestivo in cui l’oscurità invadeva progressivamente la Cappella Sistina.
Organizzata in un prologo, due parti e un epilogo, la narrazione scorre avvincente e ben concepita nell’inanellarsi, quasi da feuilleton, dei singoli paragrafi, coniata in una prosa piacevolissima, elegante e suadente, che indovina un tono convincente, dalla giusta misura, lontano dall’erudizione, che piuttosto giunge a tirare spiritosamente in ballo Immanuel Kant. Cardinali elegge a Virgilio una guida d’eccezione, il cantore, e proprio nel 1770 maestro pro tempore, Santi Giuseppe Santarelli, evirato cantore romagnolo con trascorsi teatrali e un ritratto di Pompeo Batoni: una figura discussa che all’Autore non sta granché simpatica, ma che ben rappresenta la coscienza della musica da chiesa cattolica di medio Settecento. Il lettore si ritrova così immerso in un ambiente (e nei suoi riti) appartenente a un passato ormai remoto (ne restituiscono il profumo alcune ben scelte stampe, anche di editti grotteschi di manzoniana memoria, come il «Bando che non si tiri la neve» del 1768), di cui viene evocata in termini efficaci la vita musicale. Scorrono davanti ai suoi occhi il cardinale protettore Alessandro Albani e il corpo dei Cappellani Cantori, dalla cotta bianca e dalla condizione invidiabile perché assunti a vita, ammessi nella “famiglia” del papa, titolari di stipendio, mance e privilegi, ma anche soggetti a un inflessibile sistema di controllo di qualità e produttività. Interessante in particolare la figura del segretario-puntatore, cui spettava annotare su un quadernetto assenze e ritardi, onde poi decurtare gli stipendi, al termine del mese, dei punti corrispondenti a ciascuna omissione, da tradursi in paoli e baiocchi sonanti. Sanzionabile era anche la pronuncia errata: cantare «Amatorem mundi» in luogo di «Amatorum mundi», «Crusilla» invece di «Crux illa». Forse un suggerimento ancora valido per gli attuali enti lirici.
Sostiene la narrazione il ricorso a poche ma qualificate e affidabili fonti documentarie consultate tra l’Archivio e la Biblioteca vaticana, trattati, giornali e diari che Cardinali interroga con attenzione, alla ricerca di eventi sottaciuti ad arte. Roma emerge nella complessità della sua vita politica e culturale, popolata da figure come Bonnie Prince Charlie, imbarazzante pretendente al trono inglese. Fresca è la restituzione della visita dei Mozart nella complessità delle sue componenti e nella molteplicità delle attività svolte sotto l’accorta regia di papà Leopold, di cui si mette in evidenza l’ammirazione sconfinata per tutta l’arte italiana, mentre il figlio, insignito da Clemente XIV dell’Ordine dello Speron d’oro («una novità che, se è vera, vi farà trasecolare», scrive Leopold alla moglie) viene simpaticamente rappresentato come un generale vittorioso che stringe in mano il manoscritto fresco d’inchiostro del Miserere strappato al segreto. Un segreto che il maestro di cappella Domenico Mustafà, ancora un secolo dopo la visita dei Mozart, a Unità d’Italia consumata, si illudeva di preservare a estrema tutela della veneranda tradizione sistina, supplicando Pio IX «affinché non dia il permesso ad alcuno per farne copia».
Il giovane Mozart in Vaticano. L’affaire del «Miserere» di Allegri
Giacomo Cardinali Sellerio, pagg. 257, € 18