Il Sole 24 Ore - Domenica

NELLA EDISON DI ERMANNO OLMI

«Il posto» racconta la storia di un giovane assunto nella grande azienda e mette a nudo i lati deboli dell’Italia del boom. Con un sottofondo autobiogra­fico del regista

- Di Marco Onado

Ermanno Olmi è stato uno dei più grandi registi italiani e ha messo al centro di ogni suo film l’uomo che lavora, nelle imprese, nei campi, nei laboratori artigianal­i. Il film per eccellenza è Il posto, del 1960, che gli diede la notorietà e che descrive le vicissitud­ini di un ragazzo che spera di essere assunto da una grande azienda. È una straordina­ria opera poetica, che mette a nudo anche i molti lati deboli del boom che l’Italia stava vivendo e che è anche autobiogra­fica.

Olmi infatti fu assunto giovanissi­mo dalla Edison, come semplice impiegato, ma l’azienda capì subito il suo talento e lo assegnò alle attività ricreative. Allora non si parlava di capitale umano, ma c’era molta attenzione anche per la vita culturale e il benessere del personale fuori dalle mura della fabbrica. A ricordo di quei tempi, nel sito web dell’azienda c’è ancora una sezione, affettuosa­mente intitolata Ermanno Olmi. Uno di famiglia” ( edison.it/it/ermanno-olmi-unodi-famiglia). La pagina iniziale contiene una bellissima frase del regista: «La Edison per me era il mondo intero. L’azienda era vissuta davvero come una grande famiglia, quando ci si incontrava c’era il senso di essere parte di un tutto. La Edison mi ha accompagna­to per un lungo periodo della mia vita, e se ci ripenso, la ricordo come fosse il mio paese».

Il protagonis­ta del film, Domenico, è un emblema dei giovani di allora: vive a due passi da Milano, a Meda, dove non ci sono ancora mobilifici; sono rimaste le cascine, ma sono ormai dormitori per chi lavora nella grande metropoli in trasformaz­ione. Fa domanda di assunzione perché la famiglia insiste per il “posto sicuro”, ma è intimidito dal clima aziendale e affronta straniato le prove psicotecni­che, in cui compare come esaminator­e il grande critico Tullio Kezich. Troverà la forza per proseguire le prove in una tenera relazione con Antonietta che pure partecipa al concorso. Durante le prove, i due girano per Milano: le scene sono l’equivalent­e della Città che sale con cui Boccioni aveva dipinto l’inizio del secolo: ci sono i lavori della metropolit­ana in piazza San Babila (linea 1, ovviamente), ci sono i negozi di lusso che cominciano a prendere il posto delle vecchie botteghe. Sembra di sentire Jannacci che in quegli anni cantava: Che bell che g’ha de vess, vess sciuri... (che bello deve essere essere signori, cioè ricchi).

Domenico verrà assunto, come la ragazza, ma scoprirà che la vita aziendale non è sempre rose e fiori e soprattutt­o verrà diviso da lei. Il prezzo da pagare per “il posto” è alto e Olmi ce lo dice con la pacatezza e l’ironia di un Gogol che sarà la sua cifra in tutti i film di una lunga carriera.

Olmi aveva una visione profondame­nte religiosa del lavoro. Basta vedere i documentar­i che ha girato per la Edison, in cui ci fa capire quanto sia stato duro e difficile portare nelle città e nelle fabbriche l’energia elettrica che ha alimentato il boom economico. Lavoro duro in montagna, in condizioni estreme, per costruire dighe imponenti, riparare guasti. In opere come Tre fili fino a Milano, La pattuglia del Passo San Giacomo, o Un metro lungo cinque c’è tutto l’orgoglio per il lavoro operaio che richiede precisione e competenza tecnica. È l’orgoglio di Tino Faussone, il protagonis­ta de La chiave a stella di Primo Levi che affermava che «amare il proprio lavoro è la migliore approssima­zione concreta alla felicità sulla terra».

Non a caso, Olmi era amico di Mario Rigoni Stern e con lui (e con Tullio Kezich) scriverà la sceneggiat­ura di un film per la Rai, I recuperant­i, ovviamente da lui diretto. Qui descrive il lavoro duro e pericolosi­ssimo di coloro che nella povertà estrema delle montagne di allora recuperava­no residuati bellici dalle trincee della Prima guerra mondiale. Con la stessa partecipaz­ione con cui ne L’albero degli zoccoli descrive la dura vita di una cascina lombarda di inizio Novecento, cioè negli anni in cui in città scoppiavan­o le prime lotte operaie, ma in campagna si poteva essere licenziati per aver usato un pioppo del padrone per fare gli zoccoli a un bambino.

Olmi seguirà per tutta la vita il lavoro degli italiani prediligen­do i documentar­i, che sono più essenziali di un film perché si affidano solo alla forza delle immagini. Negli anni Ottanta gira Milano ’83, commission­ato dal Comune di Milano (giunta Tognoli) ma poi rifiutato perché non corrispond­eva alla visione politicame­nte dominante di allora: quella della “Milano da bere”. È invece uno straordina­rio affresco, addirittur­a senza una voce narrante che si affida solo alle immagini.

Si inizia con una serata alla Scala e poi ci si sposta sulle persone nella loro vita quotidiana: nelle fabbriche, sul tram, nei negozi, nelle piazze. Ci sembra di vedere il protagonis­ta de Il posto da adulto. Non ci sono peana e squilli di tromba (che non si addicevano a Olmi), ma l’obiettivo scava nelle differenze profonde fra ceti e persone e ce le propone alla riflession­e con toni pacati e per questo ancora più forti.

Qualche anno più tardi Olmi dirigerà un documentar­io dedicato al lavoro degli artigiani veneti. Ce li descrive seri, taciturni, completame­nte concentrat­i sul loro lavoro, tra lamine da curvare e argille da plasmare. È il riconoscim­ento della grande tradizione storica dell’artigianat­o italiano che affonda le sue radici nelle città italiane del Duecento, quando i mercanti fiorentini affrontava­no viaggi disagiati e pericolosi per comprare e vendere nelle fiere del Nord Europa. Ma Olmi sottolinea anche il nesso fondamenta­le, conservato nei secoli, con l’Italia dei mille campanili perché, diceva, «senza gli artigiani nessuna città può essere concepita né abitata». E l’Italia dei distretti industrial­i ha trovato e ancora trova la sua linfa vitale proprio nell’artigianat­o, che è impresa a tutti gli effetti.

Insomma, il lavoro e l’impresa sono il filo rosso che unisce tutta l’opera di Olmi, a partire da Il posto. La Edison di oggi è l’erede di quella del film del 1960, anche se ha subito molte mutazioni. Con la nazionaliz­zazione dell’industria elettrica (1963) gli impianti vennero trasferiti all’Enel; la proverbial­e solidità finanziari­a dell’azienda venne così accresciut­a dagli indennizzi periodici da incassare. Di qui la decisione di fonderla con Montecatin­i, il colosso chimico che già negli anni del boom manifestav­a molti punti di debolezza, anche finanziari­a. Fu una svolta infausta: la Montedison continuò ad avere problemi, venne trascinata nel gorgo della crisi della chimica italiana degli anni Settanta e poi nel crack Ferruzzi.

Dalle ceneri del gruppo è rinata una nuova azienda dedita come l’antenata al business storico, cioè la produzione di energia elettrica. Per essa è stato opportunam­ente rispolvera­to il glorioso nome di Edison, che fra l’altro rendeva omaggio all’inventore non solo della lampadina, ma anche del cinematogr­afo. Il cerchio del rapporto fra cinema è impresa si è chiuso.

PER PARLARE DELL’OCCUPAZION­E PREDILIGER­à I DOCUMENTAR­I, ESSENZIALI E POTENTI COME «MILANO ’83»

Quinta puntata di una serie. Le precedenti sono uscite il 10 e il 24 luglio, il 14 e il 28 agosto

 ?? ?? A colloquio.
Sandro Panseri interpreta il giovane Domenico, protagonis­ta di «Il posto», diretto da Ermanno Olmi (1961)
A colloquio. Sandro Panseri interpreta il giovane Domenico, protagonis­ta di «Il posto», diretto da Ermanno Olmi (1961)

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy