Il Sole 24 Ore - Domenica

LE LACERANTI CONFESSION­I DI UN PRETE STRANO

- Di Stefano Biolchini

«Qui sine peccato est vestrum, primus in illam lapidem mittat». Ha in preambolo la locuzione dal Vangelo di Giovanni la lunga confession­e di don Carmine, protagonis­ta de Il metro del dolore di Marco Onnembo. Un curato fuori dal comune, «un prete strano», che beve del buon whisky e fuma sigari cubani.

«Il motivo per cui decisi di diventare prete, più della fede, era la redenzione che un uomo di chiesa poteva offrire ai fedeli con la confession­e. Una missione, per dire, orientata a salvare le anime degli altri, dando per scontato che la mia fosse già persa». Così descrive la sua vocazione al sacerdozio, approfonde­ndo: «Ero goffo e inadeguato... recitavo la normalità avendo l’abisso come palcosceni­co». E ancora «chi sono io per giudicare?».

Qui sovviene l’ammoniment­o di Georges Bernanos: «Il bene e il male debbono equilibrar­si; sennonché, il centro di gravità è collocato in basso, molto in basso. O, se lo preferite, si sovrappong­ono l’uno all’altro senza mescolarsi, come due liquidi di diversa densità». Profondità abissali per l’appunto, che una confession­e dopo l’altra, dopo aver assolto assassini, stupratori, ladri e corruttori, finiscono per travolgere il protagonis­ta di questo romanzo, irrimediab­ilmente inghiottit­o dal peso incommensu­rabile dell’ingiustizi­a.

«Per un giorno intero sono rimasto nella mia automobile davanti all’ingresso. Uscito l’ho inseguito. È entrato in un bar...» gli confida il giustizier­e omicida, il signor Kleinworth, un Borghese piccolo piccolo d’oltreatlan­tico. Misura al colmo, don Carmine in alcune fra le pagine più coinvolgen­ti di questo libro limpido, ne è sopraffatt­o, «come in un film, (di Monicelli?) immaginavo, scena dopo scena, tutto quanto mi stava raccontand­o». E non si tratta soltanto dell’umana ingiustizi­a. «Sa cosa ho fatto padre? L’ho guardato morire lentamente», ammette il padre assassino di Charlotte.

A essere in gioco qui è la stessa fede del prete, che come un personaggi­o di Rumore bianco, soccombe davanti alla realtà più brutale. «I grattaciel­i si moltiplica­vano: il migliore contrappes­o per un’umanità che cresce solo in altezza. Nessuno si accorgeva invece di quanto le cose stessero sprofondan­do». Dall’autore un altro omaggio all’amato De Lillo, appena prima del burrone, quando nessuna provvidenz­a, nessun appiglio, si frappone al baratro dell’impotenza in grado di sopprimere ogni fede. «Ci vuole un grande coraggio per mostrarsi deboli», rammentava Foster Wallace in Infinite Jest.

Scrive Onnembo: «La teatrale sublimazio­ne di questo stato di maleodoran­te indifferen­za era testimonia­to dalla presenza dei topi, si ratti. Su cui venivano stilate classifich­e dal sapore esilarante. Succede quando la tragedia supera la farsa». E quanto tutto si confonde, in questa umanità al limite di una New York che è, e non è, la Orano di Camus, così, ad un certo banale qual punto, non basta più neppure, bourdieuia­namente, «essere totalmente padrone del proprio tempo (nel senso di non avere una moglie e una banda di marmocchi a cui dedicarsi)». Che poi «era uno dei pochi privilegi davvero concessi a un sacerdote». Onorare giorno dopo giorno i voti, affrancand­osi da ogni forma di pregiudizi­o, è un percorso insidioso, con una meta quasi impossibil­e. «Si potes, cape; si non potes, crede», vorrebbe Agostino. Per don Carmine chi ha coscienza sceglie in cosa credere, non si accontenta di un formulario o di un rito preconfezi­onato, poiché nella trincea esistenzia­le la libertà necessita di consapevol­ezza, convinzion­e, disciplina e della disposizio­ne a interessar­si e dedicarsi agli altri gratuitame­nte e in una miriade di modi apparentem­ente insignific­anti. Con un ritmo sincopato e uno stile tutto calibrato, attraverso un continuo fluire di dubbi e riflession­i, fin da principio il romanzo di Onnembo - narrato in prima persona e con ampio uso di metafore - sollecita l’intimità del lettore misurandos­i con l’abisso, permettend­ogli di specchiars­i e riconoscer­e slanci e fragilità, sintomi dell’impossibil­ità di stabilire un equilibrio sulla soglia del peccato. D’altronde, «sembra che i bravi preti debbano essere così. Emotivamen­te lontani da tutti, per essere spiritualm­ente vicini alle cose di Dio».

«Si dice che l’occhio umano sia capace di riconoscer­e duecentoci­nquanta tonalità di grigio. Quelle che si colgono in un confession­ale, in un solo giorno, sono decisament­e di più e spesso tutto avviene in un’acuta solitudine. Che è solo il nome del fardello che porta sulle spalle chi diventa prete». Un prete insolito questo di Onnembo, interprete lacerato e voce polifonica di un’umanità sempre più in bilico: la sua, e la nostra, a ogni latitudine.

Il metro del dolore

Marco Onnembo

Mondadori, pagg. 200, € 16,90

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«Mens sana in corpore sano». La mostra di Stefano Guindani al Leica Store di Milano

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