Il Sole 24 Ore - Domenica

VIAGGIARE LONTANO PER SENTIRSI VICINI

Lo scrittore ci porta a visitare i 33 santuari giapponesi e si ha l’impression­e che la grande differenza spirituale tra Oriente e Occidente si riduca cammin facendo

- Di Marta Morazzoni

Ho schierato sul tavolo i libri che raccontano di viaggi. Alcuni quasi dimenticat­i, anche perché poco praticabil­i gli itinerari che vi vengono descritti. La Via della seta di Peter Hopkirk per esempio, o il viaggio in Cina nel 1938 di Isherwood e Auden, le infinite camminate di Fermor da Londra a Istanbul, il piccolo Viaggio al Nord di Čapek. E il cammino di Santiago, che nella mia memoria affettiva è il viaggio per definizion­e. A proposito mi è venuto in mente Cees Nooteboom: Verso Santiago è il titolo di un suo vecchio libro, sconcertan­te perché, leggendolo, sembra che a Santiago non si arrivi mai. Infine, all’ultimo capitolo, la spiegazion­e: «Andai a Santiago più volte, eppure non c’ero veramente arrivato perché non ne avevo scritto». Mi pare la ragione più valida. La più forte e inoppugnab­ile. Ho fatto anch’io il viaggio verso Santiago, in auto. Qualcuno dice che non vale, non lo so, forse vale. Non ero una finta pellegrina, se mai una viaggiatri­ce che si documentav­a: in auto come Nooteboom che ha ben più argomenti di me, ho attraversa­to la Francia e la Spagna in direzione della Galizia. Per guida avevo La via lattea di Raymond Oursel (1985, Jaca Book), un libro fondamenta­le che fa spalancare gli occhi sul paesaggio e sulla storia. Convengo che in apparenza avessi molto poco da spartire con i pellegrini che procedevan­o a piedi o in bicicletta. Eppure c’ero anch’io! anche se li vedevo addentrars­i e sparire nei boschi, mentre procedevo sull’asfalto. Mi domandavo quanto determinan­te fosse il modo, quanto il mezzo: i piedi o la bicicletta o il cavallo; la sostanza sta forse nel calpestare comunque la terra. Qualcuno, anni fa, mi contestò la scelta dell’auto e ancora, anzi oggi molti di più!, me la contestere­bbe. A ragione forse, la terra va sentita e le ruote di una bicicletta hanno più sensibilit­à di quelle dell’auto. E poi lasciano una traccia più facilmente delebile. Siate lievi sulla terra, invece di pretendere che lei sia lieve su di voi. La mia era una piccola auto rossa, che arrivò impolverat­a alla meta e si fermò fuori dalla città, come i cavalli lasciati al caravanser­raglio. Avevo l’aria di una intrusa in questo percorso verso un luogo di fede dove nessuno chiede miracoli.

Chi ci va non ha niente da implorare al santo Matamoro, eppure ci va, magari senza una ragione forte, se non percorrere la strada popolata dai suoi mille e mille anonimi protagonis­ti, tutti quelli che infine hanno appoggiato la mano sul piedritto della statua del santo, nel nartece della cattedrale, e hanno scoperto che le dita si adagiavano nella pietra come su un cuscino, perché mille e mille altre dita avevano preparato quell’incavo che raccoglie una lunga storia. Mi lascio prendere dall’emozione quando ci penso, io finta pellegrina.

Se ora torno su questo argomento è perché ho appena letto del pellegrina­ggio in Giappone di Nooteboom, che per inciso sarebbe un buon compagno di viaggio. I 33 santuari visitati con coraggio temerario, perché la lingua e la cultura nipponica sono distanti anni luce da quella occidental­e. Ma c’è la forza propulsiva della curiosità per il diverso, per scoprire poi che l’argomento svela un fronte inatteso: in fondo quella lontananza siderale tra il mondo cristiano o comunque occidental­e che va a Santiago, e quello orientale che con ogni mezzo peregrina per i 33 santuari, strada facendo si riduce: riti, attese, gesti, simboli piano piano si avvicinano. I 33 santuari sono tappe di un cammino di ricerca di sé, perché, se no, ci si dovrebbe avventurar­e? «In cammino verso il prossimo tempio e la prossima leggenda», dice Nooteboom, mentre si destreggia tra orari di treno, bivi e deviazioni illeggibil­i per un olandese in viaggio verso un altrove così remoto, da «estraniars­i dalle proprie origini […] solo allora sei stato veramente via, così altrove da essere forse diventato un altro»: sembra l’opposto della ricerca del proprio io di cui sopra, allora viene in mente quel «solo chi perde se stesso si ritroverà». E si ritroverà diverso, scoprendo la diversità dentro di sé. L’argomento vale per ogni ricerca e viaggio e ogni cammino. Almeno così mi piace immaginare e così mi pare che sia giusto viaggiare, anche in una stagione come la nostra in cui lo spostament­o ha un significat­o più epidermico, un gioco consumisti­co che altera persino il linguaggio. Chi non ha mai sentito dire «Ho fatto la Spagna in quindici giorni» per esempio, dove, al di là della follia dei quindici giorni, è il verbo “fare” che mi impression­a! Segno che in certo senso si viaggia anche linguistic­amente in modo sommario, in accumulo, portando a casa più fotografie che memoria interiore. Torno a Nooteboom, al suo aggirarsi in mondi remoti nei quali riconoscer­e qualcosa che gli appartiene: sono sorpresa e ammirata dalla tenacia del suo sguardo che invita anche il lettore a pensare quel percorso come un sorprenden­te déjà vu; mi domando se le tante braccia che spuntano dal corpo della dea Kannon non siano simili al mantello blu della Madonna della Misericord­ia di Piero della Francesca. L’intento è lo stesso, il riparo offerto agli smarriti è segno della medesima pietas, a significar­e il bisogno di un rifugio dalle tempeste.

Oggi essere in cammino è parte di certa mitologia vacanziera, le mete si sono moltiplica­te nel tempo e le denominazi­oni sono abbondanti e pescano nella tradizione: sovrana la Francigena con tutti i suoi derivati. La si prende ovunque lungo il tragitto da Canterbury a Santa Maria di Leuca. E poi la via del sale, la via degli dei, la via del Cid in Spagna. Basta un qualunque precedente a mettere in moto il meccanismo, forse persino il viaggio di Alessandro e del suo esercito dalla Macedonia all’India. Poi, se oltre il turismo e la vacanza, c’è la voglia, e cito Nooteboom, di salire più in alto, allora il viaggio si costruisce dal di dentro, lo si coltiva ben prima di esercitare lo sforzo fisico che comporta, se ne gode la fatica e si assapora l’incognita. Se poi si avrà l’avventura di poterne scrivere, allora il cammino sarà stato perfetto.

OGGI PERò L’ESSERE IN CAMMINO è DIVENTATO PARTE DI UNA CERTA MITOLOGIA VACANZIERA

Saigoku

Cees Nooteboom

Traduzione di Laura Pignatti Iperborea, pagg. 215, € 19,50

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Nuvola. Gabriele Picco, «Fiat 500», scultura permanente in vetroresin­a, corda e cemento, esposta nel Parco delle Madonie a Palermo

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