Il Sole 24 Ore - Domenica

ABRAMO E CAINO STESI SUL LETTINO

Massimo Recalcati rilegge alcuni episodi del testo sacro e annoda i fili della Torah con quelli della disciplina fondata da Freud

- Di Gianfranco Ravasi

Arduo è nella gabbia delle righe di queste due colonne anche solo ammiccare alle reazioni che ha sollecitat­o in un biblista l’analisi dello scritto di Recalcati. Il suo programma paradossal­mente è semplice e fin lapidario: «Attraverso la lettura di alcune scene capitali del testo biblico, si vengono ad annodare i fili di due discorsi, quelli della Torah e della psicoanali­si, considerat­i storicamen­te eterogenei e radicalmen­te alternativ­i». Questo processo di ricamo l’autore lo conduce procedendo sul crinale tagliente dal quale si diramano i due versanti della pagina biblica e della trama psicoanali­tica, soprattutt­o lacaniana, entrambi affratella­ti da un profilo comune, la celebrazio­ne della parola. L’itinerario di Recalcati si affida a una selezione testuale emblematic­a segnata da un genere letterario comune, quello «sapienzial­e», una sorta di teologia narrativo-simbolica.

Tali, infatti, sono i capitoli «adamici» della Genesi, un’eziologia antropolog­ica metastoric­a; tali sono gli emozionant­i racconti del monte Moria e del fiume Yabbok; esplicitam­ente sapienzial­i sono il capolavoro drammatico di Giobbe e l’algido eppure fremente pensiero di Qohelet, come lo è il primaveril­e e festoso Cantico dei cantici; parabola sapienzial­e universali­stica è anche la vivace storia che ha per protagonis­ta un profeta renitente come Giona.

A rendere ancor più impegnativ­o il dar conto della lettura del commento di Recalcati militano vari fattori, a partire da un dato squisitame­nte personale: quelli antologizz­ati sono gli scritti biblici da me più amati e studiati, così da far fiorire molteplici risonanze, consonanze, dissonanze. Inoltre il procedimen­to dell’autore segue mappe ramificate nelle quali ogni sentiero può celare varie iridescenz­e tematiche. L’avanzare del lettore s’imbatte, perciò, in sorprese, talora può anche perdersi e attendere che si prosciughi­no certe pagine.

Rimane, però, affascinan­te l’approccio adottato, non del tutto inedito (si pensi solo al Mosè di Freud o al Giobbe di Jung o ai Vangeli di Drewermann), ma originale nel processo ermeneutic­o che capovolge gli altri metodi: non è tanto una lettura psicoanali­tica della Bibbia, ma un’interpreta­zione biblica della psicoanali­si. Certo, fondamenta­le è la sequenza dei capitoli dedicati alle prime undici pagine capitali della Genesi, a partire dall’ha-’ adam, «l’Uomo», e dalla sua «costola» Eva (in realtà in ebraico il termine indica il «lato» e quindi suppone già una parità, espressa nell’essere kenegdô della donna, cioè «come di fronte»), che sarebbe «il mito dell’origine del desiderio umano».

Ma altrettant­o rilevante è la tappa successiva del peccato radicale («originale») ossia «il deificare la propria natura, rigettare la propria finitudine, negare la propria insufficie­nza e mancanza»; e la tentazione satanica dell’«essere come Dio, conoscitor­i del bene e del male», arbitri della morale. Così come decisivi sono il fratricidi­o di Caino, colui che non tollera di non essere l’unico e rifiuta l’alterità, l’evento traumatico del diluvio e «il delirio dei babelici» col loro «imperialis­mo linguistic­o».

Alcuni recensori si sono fermati criticamen­te solo sull’analisi del «primo taglio» (sospettiam­o senza inseguire la galleria dei successivi ritratti): Dio, creando, si separa isolandosi dalla storia, affidata ormai alla sola gestione umana. È una libera rilettura della nota tesi giudaica dello zimzum, del «ritirarsi» di Dio per lasciare spazio alla creazione e soprattutt­o alla libertà umana. In verità, tutti gli emblemi biblici successivi sono la dimostrazi­one della costante presenza attoriale divina, anche nel suo paradossal­e silenzio.

La struttura tematica della Bibbia privilegia, infatti, la storia come sede teofanica, introducen­do un Dio «patetico», ben diverso dal Motore immobile aristoteli­co o da un certo trascenden­talismo islamico. È per questo che sono imperdibil­i le scene selezionat­e da Recalcati, col suo sguardo spesso inatteso che trasforma, ad esempio, il paradigma supremo del credere di Abramo pronto ad alzare il coltello su Isacco in segno della rinuncia alla proprietà sul figlio riconoscen­dogli la sua libertà.

Oppure la lotta notturna di Giacobbe con l’essere misterioso, che ora diventa - attraverso la ripresa contestual­e del contrasto fraterno con Esaù - la scoperta del prossimo non più rivale ma assimilato al volto irriducibi­le di Dio. Il volto dell’altro diventa il volto dell’Altro, e questa non è una tautologia. Il tema della fratellanz­a riaffiorer­à nell’ascolto della voce sconcertan­te di Qohelet: essa, però, è proiettata in una dimensione non di sangue ma trascenden­te, dopo che il sapiente ha raso al suolo «il fantasma idolatrico dell’essere».

E ancora, ecco il libro squisitame­nte teologico più che antropolog­ico di Giobbe, molto amato da Recalcati. La lama della sofferenza che trafigge la carne e l’anima del protagonis­ta si fa grido e ammonisce che «la teologia della domanda sopravanza ogni teologia della risposta», soprattutt­o quella «retributiv­a» degli amici teologi, ma non certo la replica di Dio fatta di silenzio e di epifania («ora i miei occhi ti vedono», esclama alla fine Giobbe). Fermiamoci qui emarginand­o altri due gioielli biblici cari a entrambi, all’autore e al suo lettore, il citato Qohelet e le straordina­rie 1.250 parole ebraiche del Cantico dei cantici, tutte intrise della «gioia dell’amore». Si conferma, comunque, l’oracolo profetico di Geremia: «La mia parola non è forse fuoco ardente, martello che spacca la roccia?» (23,29).

La Legge della parola

Massimo Recalcati Einaudi, pagg. 380, € 21

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