UN DANDY DéMODé CHE VOLTò LE SPALLE ALLA MODERNITà
«Lei, la si dimentica fino a quando la si rivede, e la si rivede per dimenticarla ancora! … Come molte donne… Se avesse avuto del carattere, forse avrei tentato, ma è incorreggibilmente borghese. Non ci perderò il mio tempo!». A scrivere questi appunti, uno dei tanti ruscelli confluiti nel fiume immane dei Memoranda - tradotti per la prima volta in Italia da Sorbello per Nino Aragno, cui dobbiamo tante grandi opere che nessun editore osa affrontare - era uno dei dandy che affollavano i caffè alla moda di Parigi. Jules Amédée Barbey d’Aurevilly (18081889) aveva 28 anni e veniva da una famiglia della piccola nobiltà normanna. Grande cultore di Byron, aveva, come il suo idolo, i capelli artisticamente scompigliati dal vento della passione. Poco importa che glieli avesse arricciati poco prima il parrucchiere, l’essenziale era trasmettere il fascino fatale di chi sentiva di camminare sempre sull’orlo dell’abisso.
Anche lo stile del diario, in quegli anni, ricorda quello scabro di Byron. Sembrava che quel focoso provinciale, che nascondeva il tumulto delle passioni dietro il gelo dell’impassibilità, avesse tutto per riuscire. Ma, come insegnava il suo amato Balzac, per emergere a Parigi non bastavano certo il talento e una scintillante eloquenza, ci voleva ben altro. E presto Barbey, poco incline ai compromessi, si era ritrovato a essere, sui boulevard affollati di eleganti, solo come in riva al mare della Normandia.
Dopo una tormentata storia con Louise, la moglie di un cugino, la sua esistenza era stata intessuta di relazioni senza importanza e illusioni d’amore presto dissipate. «Rieccomi nella mia solitudine. La stanza in disordine... i vestiti sui mobili, i libri e le carte sparsi qua e là! Questa vita mi pesa. Niente legami, niente focolare, ma una tenda da nomade che si arrotola in poche ore e si porta via. È triste, dopo i 25 anni!». Intanto si era esaurita la piccola eredità lasciatagli dal parente più amato, uno zio liberale, al contrario della famiglia ultraconservatrice. Ma proprio quando i sogni di Barbey sembravano naufragare, quando chiunque altro avrebbe fatto i bagagli, tornando al paese, stava iniziando la sua nuova vita.
Lui, autore di un saggio sul dandysmo di Brummell, che aveva congedato la fastosa eleganza del ’700, aveva scelto una strada diversa. Aveva inaugurato il dandysmo démodé, che voltava le spalle alla modernità, per ribadire la sua fedeltà al passato. Chiuso nella vistosa corazza della sua redingote alla moda del 1830, nella nube di pizzo dello jabot, affrontava senza abbassare lo sguardo il trionfo della banalità.
Pur mantenendosi con i suoi articoli, non esitava a definire il giornalismo un letamaio. Pur definendosi cattolico, non esitava a scrivere sulle atrocità della vita - stupri, omicidi, sabba e violenze - su cui vigeva la regola del silenzio. Aveva dovuto ritirare le sue Diaboliche, accusate di immoralità. Per lui il diavolo esisteva davvero e l’anima era il campo di battaglia della lotta senza fine tra il male e la grazia. A chi lo accusava di esagerare ribatteva: «Volete uccidere il romanzo, sì o no? Si torna sempre lì. Se deve vivere, sappiate che mangia il cuore umano».
Di fronte alla marea inarrestabile della modernità, Barbey si era arroccato nel passato come un cavaliere solitario in un castello diroccato. E da quegli spalti corrosi dal tempo lanciava i suoi strali sulla prosaicità del presente. Battagliero, deciso a combattere una guerra perduta in anticipo, non si arrendeva mai al fatto compiuto. «Too late», era il motto con cui sigillava con la cera rossa le sue lettere variopinte: «Troppo tardi! … nella vita è sempre troppo tardi!».
Era sicuro che la vera aristocrazia, quella interiore, non quella dei ricchi o dei potenti, non si sarebbe mai spenta «perché non dipende dalla società, ma fa parte della natura umana». E ostentava «il disprezzo più insolente e, credo, più fondato per tutte le giurìe, come per tutte le accademie e per tutti i corpi costituiti».
Reazionario, individualista e pessimista parlava solo con pochi eletti, come Baudelaire o Bloy. «Io lavoro molto, sono uno stilita, un fachiro della solitudine». Nel 1851, era rimasto folgorato dal gesto della bionda baronessa De Bouglon che, per farlo smettere di bere, aveva gettato un guanto nel suo calice. Era stato l’inizio di una lunga relazione, in cui la baronessa, l’“angelo bianco”, avrebbe cercato senza troppo successo di smussare le punte più aspre dello scrittore, che avrebbe invano cercato di sposarla. A lei si sarebbe in seguito aggiunta, suscitando sospetti e gelosie, una giovane donna, Louise Read, l’“angelo nero”, definita da Barbey una segretaria e un’infermiera.
Quando gli avevano chiesto se non fosse omosessuale, aveva risposto: «Tutto mi porterebbe a esserlo, i mie gusti, la mia natura, la piacevolezza della cosa… e la mia religione non lo proibisce... Ma la bruttezza dei miei contemporanei mi ha da tempo disgustato di quel piacere».
Memoranda
Jules-Amédée Barbey d’Aurevilly
A cura di Vito Sorbello Nino Aragno editore, pagg. 550, € 30