LA FORZA E I LIMITI DEL RICONOSCIMENTO
Oggi non è più solo un concetto filosofico ma un’arma per le rivendicazioni giuridiche e uno slogan per manifestare nelle piazze. È però una lotta che sottende un modello egemonico
Il concetto di riconoscimento si è imposto tra le teorie della giustizia da circa trent’anni. Come data simbolica possiamo indicare il 1992: l’anno in cui viene pubblicato il libro intitolato Kampf um Anerkennung, Lotta per il riconoscimento, del filosofo tedesco Axel Honneth, che nel 2001 sarebbe diventato il direttore dell’Istituto di Ricerche Sociali, la “casa” della Scuola di Francoforte.
Il termine Anerkennung è entrato nel vocabolario filosofico grazie agli idealisti tedeschi: Fichte e soprattutto Hegel, che a loro a volta hanno attinto al patrimonio di analisi psicologico-politiche della filosofia classica e moderna, in particolare da Hobbes e da Rousseau. Dalla metà degli anni Novanta del Novecento, tuttavia, questo concetto tecnico e di non facile comprensione si è trasformato in parola d’ordine della critica sociale, in cui si incontrano teoria e prassi, cultura accademica e militantismo politico. Oggi il riconoscimento non è solo un tema per filosofi e scienziati sociali: è un’arma per le rivendicazioni giuridiche e uno slogan per manifestare nelle piazze.
La formula «lotta per il riconoscimento» enfatizza la dimensione conflittuale del problema. Lotte per il riconoscimento sono quelle intraprese dai nuovi movimenti sociali che esprimono le rivendicazioni dei gruppi subalterni o minoritari: minoranze etniche o religiose, militanti antirazzisti e femministe, gay, lesbiche e trans, disabili o vittime di altre forme di discriminazione. Tutte queste categorie di persone chiedono di “essere riconosciute”. E in questa richiesta è contenuta una domanda di giustizia.
Un discorso di senso comune vuole che la specificità delle lotte per il riconoscimento consista nel sostituire una concezione distributiva della giustizia con una concezione affermativo-identitaria. I nuovi movimenti sociali non chiederebbero più, come i tradizionali movimenti dei lavoratori, un’equa distribuzione di beni materiali ma la valorizzazione delle identità: l’essere nero, donna, lesbica, membro di una cultura colonizzata o in via di estinzione. Questi attributi identitari verrebbero considerati immutabili e non condivisibili da chi non appartiene alla categoria interessata. Da cui l’idea diffusa secondo cui la politica del riconoscimento porterebbe alla proliferazione e all’ipostatizzazione delle differenze.
Per quanto imprecisa, questa caratterizzazione consente di vedere come il paradigma del riconoscimento, pur restando fedele alla centralità della lotta come strumento di emancipazione politica, sposti la questione della giustizia su due piani originali. In primo luogo, è necessario correggere il discorso universalista novecentesco rendendolo più inclusivo: l’idea di giustizia non deve più essere modellata sulla base di un modello egemonico di umanità contrabbandato come universale – il soggetto bianco occidentale borghese eterosessuale nel pieno possesso di tutte le sue abilità –, ma deve rispondere alle esigenze di integrazione e partecipazione di un’umanità globalizzata e multiculturale. In secondo luogo, serve una nuova sensibilità alle questioni di giustizia che potremmo definire simboliche: quelle che passano attraverso segni, parole, risorse e competenze culturali.
Sono proprio queste due nuove rivendicazioni della politica del riconoscimento, l’inclusione delle differenze e l’attenzione al simbolico, ad aver attirato le maggiori critiche. Secondo i detrattori, si tradirebbero due principi di base della politica moderna, che avrebbe fondato la sua idea di giustizia su rivendicazioni di uguaglianza universali e sostanziali. Le lotte per il riconoscimento sarebbero sintomo di una società particolaristica, disgregata e frivola, ormai incapace di unirsi all’insegna di battaglie comuni e attenta più all’apparenza che alla sostanza, la famigerata correttezza politica.
All’interno di questo panorama, necessario per inquadrare il problema ma i mpossibile da affrontare esaustivamente, il mio approccio si concentra sul nesso tra bisogno di riconoscimento e beni simbolici. Bisogna smontare il pregiudizio per cui esisterebbero bisogni primari, economico-materiali, e bisogni spirituali secondari, come la stima, il rispetto, il prestigio, che non rappresenterebbero una priorità politica. I beni simbolici sono risorse fondamentali per condurre un’esistenza sociale degna e appagante, e per sentirsi a pieno titolo membri di una comunità. E in quanto tali devono essere rivendicati da coloro che si sentono ingiustamente misconosciuti e distribuiti equamente da parte delle istituzioni: lo stato ma anche la scuola, l’università, tutti i luoghi della trasmissione culturale e della riproduzione dell’ordine simbolico. La lotta per il riconoscimento delle donne, ad esempio, comprende tanto le rivendicazioni salariali quanto la ridiscussione dei canoni scolastici e il diritto di trasmettere il proprio cognome ai figli. Se si pensa in termini di «capitale» simbolico si può mostrare come una politica del riconoscimento correttamente intesa non comporti né l’oblio dell’uguaglianza, né una concezione idealistica o esclusivamente morale della giustizia, ma miri ad appagare i bisogni essenziali dell’essere umano in quanto essere sociale e membro di una comunità politica.
Questo approccio permette anche di svelare i lati oscuri della questione, mostrando come il nesso tra bisogno di riconoscimento e beni simbolici svolga un ruolo cruciale nei meccanismi di dominio in cui siamo inconsapevolmente immersi. Chi chiede riconoscimento entra in una relazione di dipendenza nei confronti di chi lo riconosce. Perché la politica del riconoscimento si traduca in una forma di giustizia è necessario prendere atto di queste ambivalenze e distinguere il riconoscimento come emancipazione dal riconoscimento come ideologia.
SERVE UNA NUOVA SENSIBILITà SULLE QUESTIONI PIù SIMBOLICHE CHE PASSANO ATTRAVERSO SEGNI E PAROLE
La lezione si terrà domenica 18 settembre alle ore 18 in Piazza Grande a Modena