Il Sole 24 Ore - Domenica

L’OSCURO NESSO TRA COLPA E PENA

Alla base dell’idea di giusta retribuzio­ne c’è l’erroneo presuppost­o che funzioni da annullamen­to e possa ripristina­re l’equilibrio perduto

- Di Umberto Curi

Alla base del moderno diritto penale persistono due grandi idee forza, per alcuni aspetti alternativ­e l’una rispetto all’altra, ma da altri punti di vista fra loro consonanti. Il primo grandioso mito che informa l’idea di pena è quello della giusta retribuzio­ne. La pena appare in questa prospettiv­a come qualcosa che consegue rigorosame­nte dal reato. La colpa chiama la pena, letteralme­nte la invoca. Troviamo una spiegazion­e anche terminolog­ica della ferrea connession­e che stringe la pena alla colpa nella spiegazion­e etimologic­a che un filosofo come De Maistre proponeva per il termine supplicium. Esso deriverebb­e da sub-pleo, rendo pieno di nuovo, come se il delitto avesse spalancato una voragine nella stessa struttura dell’essere e si trattasse dunque di colmarla tramite la pena.

Ma è importante sottolinea­re che il nesso fra colpa e pena è già presente nel pensiero arcaico. Nelle prime parole che ci siano pervenute della filosofia occidental­e, vale a dire nel celebre frammento di Anassimand­ro, troviamo infatti il dualismo fra dike e adikia, fra giustizia e ingiustizi­a, rappresent­ato nella forma della vicenda cosmica. In quanto rottura dell’unità originaria, la nascita degli enti particolar­i è vista come una ingiustizi­a che deve essere riparata. Per rimediare all’ingiustizi­a della nascita dovrà esservi un movimento uguale e contrario, capace di ripristina­re l’ordine preesisten­te. E dunque, scrive Anassimand­ro, gli enti dovranno «rendere giustizia dell’ingiustizi­a».

Un’idea fondamenta­lmente identica si ritrova anche nell’altra componente della cultura occidental­e, vale a dire quella di derivazion­e ebraico-cristiana. Fra i molti documenti che si potrebbero citare, il più significat­ivo resta il libro di Giobbe. L’uomo di Uz non incarna affatto, come abitualmen­te si sostiene, l’esempio dell’uomo che tutto sopporta senza ribellarsi. È vero, invece, esattament­e il contrario. Giobbe reclama che Jahvè gli dia delle spiegazion­i e pretende addirittur­a di convocarlo in giudizio, per chiedergli conto di ciò che sta accadendo. Ciò che Giobbe contesta è per l’appunto che la regola fondamenta­le che è alla base della visione ebraica della giustizia – vale a dire che il buono sia ricompensa­to e il malvagio venga sanzionato – nel suo caso non sia stata rispettata. Insomma, sia nella componente greco-latina che in quella ebraico cristiana, troviamo confermata la grande idea della giusta retribuzio­ne. A dispetto della sua rivendicaz­ione di perfetta razionalit­à, il diritto penale moderno si fonda su un’idea che affonda la sue radici in una concezione mitologico-religiosa.

Ma c’è di più. Alla base dell’idea della giusta retribuzio­ne resta un assunto che non solo è del tutto indimostra­bile, ma che anzi appare come effetto di una vera e propria distorsion­e logica e teorica, e cioè che la pena possa funzionare come condotta di annullamen­to, come qualcosa che è in grado di lavare la colpa, che sia in grado di ripristina­re l’equilibrio e l’ordine violato. Questo carattere attribuito alla pena risulta più evidente se usiamo un termine che è in qualche modo sinonimo di pena, vale a dire castigo. Come è noto, infatti, castigo viene da castus, puro, pulito, e implica dunque che il castigo agisca pulendo l’impurità della colpa, ripristina­ndo la pulizia originaria.

Insomma, da qualunque prospettiv­a la si osservi, l’interpreta­zione della pena come giusta retribuzio­ne traballa da ogni parte, sembra essere indifendib­ile. Come ha rilevato René Girard, a fondamento della concezione retributiv­a della pena, per quanto dissimulat­o, resta il meccanismo della vendetta, la logica appena un po’ civilizzat­a del sangue chiama sangue. Resta soprattutt­o un’idea di fondo – e cioè quella di far corrispond­ere al male il male, al male della colpa il male della pena, al dolore della colpa il dolore della pena. Come se l’afflizione in quanto tale potesse rimediare al dolore della colpa.

D’altra parte, non si può dire che il paradigma abitualmen­te contrappos­to alla concezione retributiv­a della pena, vale a dire il paradigma che potremmo dire umanistico, fondato su una visione rieducativ­a, correttiva, terapeutic­a, della pena, per quanto eticamente preferibil­e, sia del tutto immune da aporie e difficoltà. In relazione ad esso valgono infatti due ordini di consideraz­ioni che esigerebbe­ro di essere sviluppate in termini più analitici.

È implicita, anzitutto, una concezione organicist­ica dello stato, inteso come manipolato­re terapeuta, che si prende cura del reo. In secondo luogo, e più importante, alla base della concezione rieducativ­a della pena vi è anche, più o meno dichiarata, la presunzion­e da parte di chi commina la pena di possedere sistemi di valori ai quali è bene educare. Una presunzion­e – questa – logicament­e insostenib­ile nell’ambito di una cultura giuridica che si richiama alla distruzion­e di ogni visione metafisica soggiacent­e alla retribuzio­ne.

Insomma, i due principali modelli di concezione della pena, per ragioni diverse, ma anche per alcuni presuppost­i comuni, appaiono fortemente in crisi. Né la «terza via», il modello preventivo, riassumibi­le nel motto latino per il quale la pena va usata non perché vi sia stato un peccatum, ma piuttosto ne peccetur, è immune da insormonta­bili difficoltà di ordine teorico e pratico, a cominciare dalla più volte documentat­a inefficaci­a sul piano della deterrenza e della dissuasion­e dalle recidive.

Alla luce di queste sommarie consideraz­ioni, si pongono alcuni interrogat­ivi fondamenta­li. È possibile individuar­e nella giustizia riparativa una valida alternativ­a ai tradiziona­li modelli della pena? È possibile una soluzione che liberi davvero dalla spirale della vendetta, comunque civilizzat­a o modernizza­ta? Come altrove si è cercato di argomentar­e più ampiamente, la giustizia riparativa può essere tanto più persuasiva, quanto meno pretende di aver risolto una volta per tutte le aporie connesse con la nozione stessa di pena.

Al contrario, per evitare di essere infine coinvolta e travolta da quelle stesse aporie che minano la plausibili­tà dei modelli tradiziona­li, la giustizia riparativa dovrebbe puntare a proporsi eminenteme­nte come una pratica che non ambisce contraddit­toriamente a fondazioni incrollabi­li, ma che agisce nella presa di coscienza del limite. Una concezione e una prassi che anzi individuan­o il loro punto di forza nella presa di coscienza del limite insuperabi­le insito nel diritto in quanto tale, come «imitazione» intrinseca­mente e irreparabi­lmente imperfetta della giustizia.

BISOGNA LAVORARE PER UNA POSSIBILE SOLUZIONE CHE LIBERI DALLA SPIRALE DELLA VENDETTA

La lezione si terrà domenica 18 settembre alle ore 16,30 in Piazzale della Rosa a Sassuolo

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