L’OSCURO NESSO TRA COLPA E PENA
Alla base dell’idea di giusta retribuzione c’è l’erroneo presupposto che funzioni da annullamento e possa ripristinare l’equilibrio perduto
Alla base del moderno diritto penale persistono due grandi idee forza, per alcuni aspetti alternative l’una rispetto all’altra, ma da altri punti di vista fra loro consonanti. Il primo grandioso mito che informa l’idea di pena è quello della giusta retribuzione. La pena appare in questa prospettiva come qualcosa che consegue rigorosamente dal reato. La colpa chiama la pena, letteralmente la invoca. Troviamo una spiegazione anche terminologica della ferrea connessione che stringe la pena alla colpa nella spiegazione etimologica che un filosofo come De Maistre proponeva per il termine supplicium. Esso deriverebbe da sub-pleo, rendo pieno di nuovo, come se il delitto avesse spalancato una voragine nella stessa struttura dell’essere e si trattasse dunque di colmarla tramite la pena.
Ma è importante sottolineare che il nesso fra colpa e pena è già presente nel pensiero arcaico. Nelle prime parole che ci siano pervenute della filosofia occidentale, vale a dire nel celebre frammento di Anassimandro, troviamo infatti il dualismo fra dike e adikia, fra giustizia e ingiustizia, rappresentato nella forma della vicenda cosmica. In quanto rottura dell’unità originaria, la nascita degli enti particolari è vista come una ingiustizia che deve essere riparata. Per rimediare all’ingiustizia della nascita dovrà esservi un movimento uguale e contrario, capace di ripristinare l’ordine preesistente. E dunque, scrive Anassimandro, gli enti dovranno «rendere giustizia dell’ingiustizia».
Un’idea fondamentalmente identica si ritrova anche nell’altra componente della cultura occidentale, vale a dire quella di derivazione ebraico-cristiana. Fra i molti documenti che si potrebbero citare, il più significativo resta il libro di Giobbe. L’uomo di Uz non incarna affatto, come abitualmente si sostiene, l’esempio dell’uomo che tutto sopporta senza ribellarsi. È vero, invece, esattamente il contrario. Giobbe reclama che Jahvè gli dia delle spiegazioni e pretende addirittura di convocarlo in giudizio, per chiedergli conto di ciò che sta accadendo. Ciò che Giobbe contesta è per l’appunto che la regola fondamentale che è alla base della visione ebraica della giustizia – vale a dire che il buono sia ricompensato e il malvagio venga sanzionato – nel suo caso non sia stata rispettata. Insomma, sia nella componente greco-latina che in quella ebraico cristiana, troviamo confermata la grande idea della giusta retribuzione. A dispetto della sua rivendicazione di perfetta razionalità, il diritto penale moderno si fonda su un’idea che affonda la sue radici in una concezione mitologico-religiosa.
Ma c’è di più. Alla base dell’idea della giusta retribuzione resta un assunto che non solo è del tutto indimostrabile, ma che anzi appare come effetto di una vera e propria distorsione logica e teorica, e cioè che la pena possa funzionare come condotta di annullamento, come qualcosa che è in grado di lavare la colpa, che sia in grado di ripristinare l’equilibrio e l’ordine violato. Questo carattere attribuito alla pena risulta più evidente se usiamo un termine che è in qualche modo sinonimo di pena, vale a dire castigo. Come è noto, infatti, castigo viene da castus, puro, pulito, e implica dunque che il castigo agisca pulendo l’impurità della colpa, ripristinando la pulizia originaria.
Insomma, da qualunque prospettiva la si osservi, l’interpretazione della pena come giusta retribuzione traballa da ogni parte, sembra essere indifendibile. Come ha rilevato René Girard, a fondamento della concezione retributiva della pena, per quanto dissimulato, resta il meccanismo della vendetta, la logica appena un po’ civilizzata del sangue chiama sangue. Resta soprattutto un’idea di fondo – e cioè quella di far corrispondere al male il male, al male della colpa il male della pena, al dolore della colpa il dolore della pena. Come se l’afflizione in quanto tale potesse rimediare al dolore della colpa.
D’altra parte, non si può dire che il paradigma abitualmente contrapposto alla concezione retributiva della pena, vale a dire il paradigma che potremmo dire umanistico, fondato su una visione rieducativa, correttiva, terapeutica, della pena, per quanto eticamente preferibile, sia del tutto immune da aporie e difficoltà. In relazione ad esso valgono infatti due ordini di considerazioni che esigerebbero di essere sviluppate in termini più analitici.
È implicita, anzitutto, una concezione organicistica dello stato, inteso come manipolatore terapeuta, che si prende cura del reo. In secondo luogo, e più importante, alla base della concezione rieducativa della pena vi è anche, più o meno dichiarata, la presunzione da parte di chi commina la pena di possedere sistemi di valori ai quali è bene educare. Una presunzione – questa – logicamente insostenibile nell’ambito di una cultura giuridica che si richiama alla distruzione di ogni visione metafisica soggiacente alla retribuzione.
Insomma, i due principali modelli di concezione della pena, per ragioni diverse, ma anche per alcuni presupposti comuni, appaiono fortemente in crisi. Né la «terza via», il modello preventivo, riassumibile nel motto latino per il quale la pena va usata non perché vi sia stato un peccatum, ma piuttosto ne peccetur, è immune da insormontabili difficoltà di ordine teorico e pratico, a cominciare dalla più volte documentata inefficacia sul piano della deterrenza e della dissuasione dalle recidive.
Alla luce di queste sommarie considerazioni, si pongono alcuni interrogativi fondamentali. È possibile individuare nella giustizia riparativa una valida alternativa ai tradizionali modelli della pena? È possibile una soluzione che liberi davvero dalla spirale della vendetta, comunque civilizzata o modernizzata? Come altrove si è cercato di argomentare più ampiamente, la giustizia riparativa può essere tanto più persuasiva, quanto meno pretende di aver risolto una volta per tutte le aporie connesse con la nozione stessa di pena.
Al contrario, per evitare di essere infine coinvolta e travolta da quelle stesse aporie che minano la plausibilità dei modelli tradizionali, la giustizia riparativa dovrebbe puntare a proporsi eminentemente come una pratica che non ambisce contraddittoriamente a fondazioni incrollabili, ma che agisce nella presa di coscienza del limite. Una concezione e una prassi che anzi individuano il loro punto di forza nella presa di coscienza del limite insuperabile insito nel diritto in quanto tale, come «imitazione» intrinsecamente e irreparabilmente imperfetta della giustizia.
BISOGNA LAVORARE PER UNA POSSIBILE SOLUZIONE CHE LIBERI DALLA SPIRALE DELLA VENDETTA
La lezione si terrà domenica 18 settembre alle ore 16,30 in Piazzale della Rosa a Sassuolo