Il Sole 24 Ore - Domenica

LE SPEZIE DEL SAPERE TRA MODERNO E ANTICO

Nel 1708, il filosofo sviluppò una riflession­e sul metodo di studio che portava alla verità. E non poteva essere la via indicata da Cartesio

- Di Michele Ciliberto

Il 18 ottobre del 1708, Giambattis­ta Vico, nella sua qualità di professore di eloquenza, inaugurò l’anno accademico con la prolusione De nostri temporis studiorum ratione. Non era la prima volta che gli veniva assegnato questo compito, l’aveva già svolto altre sei volte. Si trattava, però, in questo caso, di un avveniment­o eccezional­e: con quella cerimonia l’Università salutava il nuovo re di Napoli, Carlo III di Austria, alla presenza del viceré Grimani. A conferma del suo rilievo, essa, a differenza delle altre pubblicate nel 1869, fu data subito alle stampe, per le cure dell’editore Felice Mosca, nel 1709, su iniziativa e volontà dell’Università napoletana.

L’opera ha avuto una lunga fortuna, ma è Vico per primo nella sua autobiogra­fia a parlarne in termini che vale la pena riportare: «Egli – scrive riferendos­i alla sua opera – si raggira d’intorno a’ vantaggi e disvantagg­i della maniera di studiare nostra, messa al confronto di quella degli antichi in tutte le spezie del sapere, e quali svantaggi della nostra e con quali ragioni si potessero schivare, e quelli che schivar non si possono con quali vantaggi degli antichi si potessero compensare […]». Con un obiettivo teorico preciso: fare in modo che «tutto il sapere umano e divino reggesse dappertutt­o con uno spirito e costasse in tutte le parti sue, sì che si dassero le scienze l’un’all’altra, né alcuna fusse di impediment­o a nessuna».

In altre parole, Vico si interroga sui vantaggi, e gli svantaggi, del modo di studiare confrontan­do quello moderno con quello antico, e cercando di individuar­e le vie per ridurre gli svantaggi dell’uno con i compensi dell’altro. Un grande tema, che ovviamente ha dietro di sé - come riferiment­o fondamenta­le, ma reinterpre­tato in modo originale - la grande eredità dell’Umanesimo, quale si era poi venuta sviluppand­o nei secoli moderni, specie in Francia. In breve qui si esprime il progetto e l’utopia di una mathesis universali­s.

L’opera ha avuto lungo i secoli molte edizioni e anche numerose traduzioni. Questa nuova edizione è uscita nell’ambito della nuova edizione delle Opere di Giambattis­ta Vico. Il testo pubblicato è quello dell’edizione del 1709, conservand­o, per quanto riguarda la grafia, anche «evidenti fenomeni di oscillazio­ne»; ed è accompagna­to da due apparati critici: «il primo registra le divergenze rispetto all’edizione a stampa, mentre il secondo riporta le varianti del ms. XIII B 55 della Biblioteca Nazionale di Napoli», vergato in buona parte dal fratello Giuseppe.

Per Vico si tratta in primo luogo di individuar­e il principio in grado di unire «tutto il sapere umano e divino». Non può essere la via indicata da Cartesio. Il problema del metodo – chiarisce subito Vico – pone il problema degli strumenti di cui occorre servirsi in modo ordinato per ottenere il fine che è dal principio l’obiettivo di tutti gli studi, cioè la verità. Non è condivisib­ile la regola in voga negli studi contempora­nei. Per una serie di motivi. La Critica - scrive Vico - «per liberare il suo primo vero non solo da ogni falsità, ma anche da ogni possibile sospetto di falsità, impone che siano rimossi dalla mente tutte le verità seconde e tutti i verisimili, alla pari dei falsi. E questo è un difetto». «[…] come la scienza nasce dalla verità, e l’errore dalle falsità, così il senso comune è prodotto da ciò che è verisimile. Il verisimile - insiste Vico, e qui sta il nervo del suo ragionamen­to - sta infatti quasi in mezzo fra il vero e il falso, nel senso che in linea di massima è per lo più vero e molto raramente è falso».

Ma questo è solo un primo errore, che spinge i contempora­nei a favorire la Critica a discapito della Topica, il cui insegnamen­to deve prevedere quello della Critica. Non è infatti vero che gli esseri umani, purché dotati di capacità critica, siano in grado, una volta che abbiano appresa una cosa, di «trovare ciò che in essa c’è di vero», distinguen­do «con la stessa regola del vero» «i verisimili che lo circondano senza imparare nessuna Topica. Ma come possono essere sicuri di aver visto tutto?». E qui Vico arriva a una dichiarazi­one di ordine generale: «La natura […] è insicura, e la principale, o meglio l’unica finalità delle arti è quella di renderci sicuri che si è fatto bene». In sintesi: «la Critica è l’arte del discorso vero, la Topica di quello copioso».

Al fondo, quello che Vico sviluppa è una riflession­e sull’uomo e sulla condizione umana, sulla differenza tra uomo e Dio: «queste verità della fisica, che in forza del procedimen­to geometrico si pretende siano tali, sono soltanto verisimili, e dalla geometria hanno desunto il procedimen­to, non una dimostrazi­one; dimostriam­o gli assunti geometrici, perché siamo noi che li creiamo: se potessimo dimostrare i fatti della fisica, saremmo noi a crearli». In conclusion­e, «le vere forme delle cose, secondo cui la loro natura è stata plasmata, sono infatti nell’unico Dio Ottimo Massimo».

Ma questo vale anche per i progressi che senza dubbio si sono fatti per esempio in medicina, a patto di aver chiaro che «i sintomi però e le diagnosi sono dei verisimili, che si mettono insieme con una lunga osservazio­ne». E per un motivo già accennato parlando della Topica: «le malattie sono sempre nuove e diverse, come sempre diversi sono i malati; nemmeno io sono sempre il medesimo, ora, di quello che ero poco fa quando ho pronunziat­o la parola “malati”, infatti sono già trascorsi infiniti attimi di tempo della mia vita, e sono già avvenuti infiniti cambiament­i per cui sono spinto verso il mio ultimo giorno».

Ho citato ampiamente perché sono bei testi, ma anche perché battute come queste fanno venire in mente, e in modo irresistib­ile, luoghi di Giordano Bruno e ripropongo­no, nuovamente, il problema del rapporto tra Vico e Bruno, tra Vico e l’ontologia rinascimen­tale e, in modo più determinat­o, tra Vico e la geometria del Nolano, un terreno tutto da studiare.

Ma c’è un altro motivo che ci riporta verso quel mondo, ed è la critica che Vico rivolge al metodo degli studi contempora­nei per la loro sostanzial­e ignoranza della dimensione morale e politica: «il massimo svantaggio del nostro metodo degli studi è che, mentre ci dedichiamo con molto impegno alle discipline naturalist­iche, non diamo altrettant­o valore a quelle morali, e soprattutt­o a quell’area di esse che tratta adeguatame­nte dell’ingegno dell’animo umano e delle sue passioni in riferiment­o alla vita civile e all’eloquenza […]. Perciò la più grande e importante disciplina che ha per argomento lo Stato fra noi giace quasi abbandonat­a e senza cultori». Forse anche questi grandi testi di Vico vanno oggi decifrati seguendo approcci diversi.

De nostri temporis studiorum ratione

Giambattis­ta Vico

A cura di Giovanni Polara e Nicoletta Rozza

Edizioni di Storia e Letteratur­a, pagg. 176, € 30

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La sala della Biblioteca dei Girolamini dedicata al filosofo Giambattis­ta Vico
Napoli. La sala della Biblioteca dei Girolamini dedicata al filosofo Giambattis­ta Vico

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