I TONI E I SUONI DEL GIORNO DELL’IRA
Uno studio sul «proprium» della «missa pro defunctis» e in particolare sulla drammatica sequenza del «Dies irae». Nei secoli la liturgia funebre divenne uno spettacolo laico per la celebrazione di personalità pubbliche
La ricorrenza luttuosa dell’11 settembre offre un contesto mesto ma appropriato per ragionare sullo studio realizzato da Simone Caputo, ricercatore alla Sapienza, attorno al genere musicale della messa da requiem. Frequentato perlopiù tramite pochi esiti eccelsi e celeberrimi (Mozart, Verdi, eventualmente Fauré o Britten), il proprium della missa pro defunctis vanta una tradizione millenaria di grande momento, che dal Seicento finì per prevalere sulle altre forme devozionali.
Ritualizzazione elaborata dalla Chiesa d’Occidente per tradurre la molteplicità di significati teologici ed esistenziali connessi al trapasso, ha preso la forma d’una serie di testi trasmessi soltanto apparentemente inalterati di generazione in generazione, dal basso Medioevo a noi. La messa da requiem ha seguito docile l’evoluzione subìta dal rapporto tra l’uomo e la morte nella nostra civiltà, come dimostrano i diversi approcci nelle intonazioni musicali. Caputo argomenta questa tesi con un discorso di ampio respiro che, senza disperdersi nei rivoli di esemplificazioni a pioggia, prende a campione due fasi soltanto della produzione musicale (Cinquecento e primo Ottocento), per lasciare spazio a riflessioni a vasto raggio che si dipartono da un solido fondamento antropologico.
Sulla scorta degli studi di Philippe Ariès e Michel Vovelle, concezione della morte e rito funebre vengono considerati nell’intersezione tra scienze sociali e scienze umane, in quel nodo indissolubile fra pensiero della trascendenza e pratica sociale, oggettività rituale ed esperienza soggettiva, nella consapevolezza della centralità della morte nel pensiero filosofico e nella riflessione poetica dell’Europa di età moderna. Un ruolo cruciale è assegnato alla trasformazione della percezione della morte, e di conseguenza al diverso significato che viene ad assumere il rito. Il Settecento illuminista rappresenta l’autentico crinale fra due concezioni sensibilmente differenti. Su un versante si colloca la contemplazione della propria morte all’ombra di quella di Cristo, esperienza individuale per la quale s’invoca l’intercessione pubblica, ricorrendo anche allo strumento diffusissimo delle Confraternite. Sul nostro versante della Storia il rito subisce un processo di teatralizzazione (emblematica la resa musicale spaventevole del testo più drammatico, la sequenza Dies irae) parallelo alla secolarizzazione della società. La morte diventa uno spettacolo essenzialmente laico rappresentato non tanto a vantaggio della salvezza individuale quanto in termini di esemplarità sociale, celebrazione d’una personalità pubblica di cui la società assume l’eredità morale, con l’orazione che si trasforma in elogio funebre. Commemorazione e non intercessione, insomma: un tema che le classi alte prima, lo Stato e la nazione poi di fatto sequestrano alla Chiesa, come risulta lampante nella ritualità della Rivoluzione francese, in cui la marcia funebre (a partire da quella di Gossec per i funerali del conte di Mirabeau, 1790) giunge a sostituire, con ritualità propria, la celebrazione liturgica.
Convincente e avvincente, benché si avverta talora il desiderio di un’espressione più calzante e s’incappi in citazioni di studiosi stranieri lasciate incomprensibilmente nella lingua originale, il discorso conduce il lettore attraverso un percorso per exempla non solo musicale (benché questo versante, nota l’autore, sia ingiustamente trascurato dagli antropologi) che si diparte dalla genesi delle melodie gregoriane della messa da requiem (ineludibile quella del Dies irae, citata ovunque nel repertorio sinfonico, da Berlioz a Liszt a Rachmaninov); affronta i franco-fiamminghi che ancora nel Quattrocento con Ockeghem ne inventarono la veste polifonica, tramandata agli spagnoli come Victoria e l’oscuro Juan García Basurto, al servizio di Filippo II, e agli italiani (molti, tra cui il Palestrina); visita la Napoli in cui nel secolo a cavallo tra Sei e Settecento si compongono 400 requiem, da Sarro a Durante a Paisiello, che nel 1799 per le esequie di Pio VI propose insieme una sinfonia programmatica (nata per un generale francese!) e una messa, collocandosi manzonianamente al volgere di due secoli, al termine di un’evoluzione civile e normativa passata da spagnoli, austriaci, borboni e francesi; approda infine nella Parigi di primo Ottocento, che vede i capolavori di Cherubini e Berlioz. In quest’ultima partitura, la cui «orribile maestà» influì non poco su Verdi, il compositore intervenne liberamente sul testo, intrecciandone diverse sezioni con spregiudicata intenzione poetica. Correda lo studio un apparato iconografico interessante e parzialmente a colori, che compensa la fredda monocromia di questa e delle altre copertine dell’encomiabile, giovane casa editrice, cui forse non guasterebbe una cifra grafica più efficace.
Dies irae. Requiem in musica dal Cinquecento all’Ottocento
Simone Caputo Neoclassica, pagg. 320, € 25