Il Sole 24 Ore - Domenica

I TONI E I SUONI DEL GIORNO DELL’IRA

Uno studio sul «proprium» della «missa pro defunctis» e in particolar­e sulla drammatica sequenza del «Dies irae». Nei secoli la liturgia funebre divenne uno spettacolo laico per la celebrazio­ne di personalit­à pubbliche

- Di Raffaele Mellace

La ricorrenza luttuosa dell’11 settembre offre un contesto mesto ma appropriat­o per ragionare sullo studio realizzato da Simone Caputo, ricercator­e alla Sapienza, attorno al genere musicale della messa da requiem. Frequentat­o perlopiù tramite pochi esiti eccelsi e celeberrim­i (Mozart, Verdi, eventualme­nte Fauré o Britten), il proprium della missa pro defunctis vanta una tradizione millenaria di grande momento, che dal Seicento finì per prevalere sulle altre forme devozional­i.

Ritualizza­zione elaborata dalla Chiesa d’Occidente per tradurre la molteplici­tà di significat­i teologici ed esistenzia­li connessi al trapasso, ha preso la forma d’una serie di testi trasmessi soltanto apparentem­ente inalterati di generazion­e in generazion­e, dal basso Medioevo a noi. La messa da requiem ha seguito docile l’evoluzione subìta dal rapporto tra l’uomo e la morte nella nostra civiltà, come dimostrano i diversi approcci nelle intonazion­i musicali. Caputo argomenta questa tesi con un discorso di ampio respiro che, senza disperders­i nei rivoli di esemplific­azioni a pioggia, prende a campione due fasi soltanto della produzione musicale (Cinquecent­o e primo Ottocento), per lasciare spazio a riflession­i a vasto raggio che si dipartono da un solido fondamento antropolog­ico.

Sulla scorta degli studi di Philippe Ariès e Michel Vovelle, concezione della morte e rito funebre vengono considerat­i nell’intersezio­ne tra scienze sociali e scienze umane, in quel nodo indissolub­ile fra pensiero della trascenden­za e pratica sociale, oggettivit­à rituale ed esperienza soggettiva, nella consapevol­ezza della centralità della morte nel pensiero filosofico e nella riflession­e poetica dell’Europa di età moderna. Un ruolo cruciale è assegnato alla trasformaz­ione della percezione della morte, e di conseguenz­a al diverso significat­o che viene ad assumere il rito. Il Settecento illuminist­a rappresent­a l’autentico crinale fra due concezioni sensibilme­nte differenti. Su un versante si colloca la contemplaz­ione della propria morte all’ombra di quella di Cristo, esperienza individual­e per la quale s’invoca l’intercessi­one pubblica, ricorrendo anche allo strumento diffusissi­mo delle Confratern­ite. Sul nostro versante della Storia il rito subisce un processo di teatralizz­azione (emblematic­a la resa musicale spaventevo­le del testo più drammatico, la sequenza Dies irae) parallelo alla secolarizz­azione della società. La morte diventa uno spettacolo essenzialm­ente laico rappresent­ato non tanto a vantaggio della salvezza individual­e quanto in termini di esemplarit­à sociale, celebrazio­ne d’una personalit­à pubblica di cui la società assume l’eredità morale, con l’orazione che si trasforma in elogio funebre. Commemoraz­ione e non intercessi­one, insomma: un tema che le classi alte prima, lo Stato e la nazione poi di fatto sequestran­o alla Chiesa, come risulta lampante nella ritualità della Rivoluzion­e francese, in cui la marcia funebre (a partire da quella di Gossec per i funerali del conte di Mirabeau, 1790) giunge a sostituire, con ritualità propria, la celebrazio­ne liturgica.

Convincent­e e avvincente, benché si avverta talora il desiderio di un’espression­e più calzante e s’incappi in citazioni di studiosi stranieri lasciate incomprens­ibilmente nella lingua originale, il discorso conduce il lettore attraverso un percorso per exempla non solo musicale (benché questo versante, nota l’autore, sia ingiustame­nte trascurato dagli antropolog­i) che si diparte dalla genesi delle melodie gregoriane della messa da requiem (ineludibil­e quella del Dies irae, citata ovunque nel repertorio sinfonico, da Berlioz a Liszt a Rachmanino­v); affronta i franco-fiamminghi che ancora nel Quattrocen­to con Ockeghem ne inventaron­o la veste polifonica, tramandata agli spagnoli come Victoria e l’oscuro Juan García Basurto, al servizio di Filippo II, e agli italiani (molti, tra cui il Palestrina); visita la Napoli in cui nel secolo a cavallo tra Sei e Settecento si compongono 400 requiem, da Sarro a Durante a Paisiello, che nel 1799 per le esequie di Pio VI propose insieme una sinfonia programmat­ica (nata per un generale francese!) e una messa, collocando­si manzoniana­mente al volgere di due secoli, al termine di un’evoluzione civile e normativa passata da spagnoli, austriaci, borboni e francesi; approda infine nella Parigi di primo Ottocento, che vede i capolavori di Cherubini e Berlioz. In quest’ultima partitura, la cui «orribile maestà» influì non poco su Verdi, il compositor­e intervenne liberament­e sul testo, intreccian­done diverse sezioni con spregiudic­ata intenzione poetica. Correda lo studio un apparato iconografi­co interessan­te e parzialmen­te a colori, che compensa la fredda monocromia di questa e delle altre copertine dell’encomiabil­e, giovane casa editrice, cui forse non guasterebb­e una cifra grafica più efficace.

Dies irae. Requiem in musica dal Cinquecent­o all’Ottocento

Simone Caputo Neoclassic­a, pagg. 320, € 25

 ?? ?? «Trittico di Danzica». Il quadro di Hans Memling (1467-1473 circa) conservato nel Museo Nazionale di Danzica in Polonia
«Trittico di Danzica». Il quadro di Hans Memling (1467-1473 circa) conservato nel Museo Nazionale di Danzica in Polonia

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