Il Sole 24 Ore - Domenica

IL LEONE D’ORO ALLA LOTTA DI GOLDIN

Vince la battaglia della fotografa contro la famiglia Sackler. A Guadagnino la regia e l’attrice emergente, mentre alla giovane Diop Gran premio della giuria e il De Laurentiis

- Di Cristina Battoclett­i cristinaba­ttocletti.blog.ilsole24or­e.com

Il dolce sorriso di Julianne Moo r e non deve ingannare: è stata capace di premiare uno dei titoli più duri e sorprenden­ti della 79esima edizione della Mostra del cinema di Venezia, All the beauty and the bloodshed di Laura Poitras, già premio Oscar nel 2015 al miglior documentar­io per il film Citizenfou­r su Edward Snowden. La fotografa Nan Goldin, ritratta tra i suoi scatti di vita a velocità indiavolat­a, tra arte, dipendenze, amori (omo ed eterosessu­ali), violenze psicologic­he e fisiche, scorre come un racconto epico, da cui è impossibil­e staccare lo sguardo. Meno felice, quando gli anni bohémienne, lo stile smodato e quasi ingenuo di portare avanti il proprio pensiero si associano a una delle sue ultime battaglie contro la famiglia Sacklers, conosciuta per le sue donazioni ai musei e responsabi­le per aver messo in commercio un farmaco, l’OxyContin, capace di creare tossicodip­endenza nei pazienti e in primo luogo nella Goldin. Questa battaglia sacrosanta e premiante (grandi istituzion­i hanno smesso di accettare donazioni dai Sackler) spezza la poesia del dolore e della creatività. Ma ben venga questo coraggio per nulla scontato, che ha portato Alice Diop per Saint Omer ben due volte nel Palmares con il Gran premio della Giuria e il Premio opera prima De Laurentiis. Diop, documentar­ista 43enne francese di origini senegalesi con tante medaglie nel carnet, traghetta il suo cinema verità dentro la finzione nell’aula di un tribunale, dove un’immigrata senegalese Laurence Coly (Guslagie Malanda), viene giudicata per l’omicidio della figlia di 15 mesi. Guardiamo l’imputata con gli occhi di Rama (Kayije Kagame), scrittrice e docente universita­ria, la cui famiglia è venuta dall’Africa. Dentro non c’è solo la denuncia del disagio di chi si sente addosso il pregiudizi­o occidental­e (alla cerimonia di premiazion­e si è rivolta alle donne di colore dicendo: «Il nostro silenzio non ci proteggerà e noi non teceremo più»), c’è anche il peso della tradizione e del tradimento di una cultura d’origine che andrebbe difesa e tutelata. Su questo tema intercultu­rale Diop riesce a fare un finissimo lavoro di tessitura con il dogma della maternità, senza finire sulla tragica via della retorica.

Il premio speciale della Giuria è andato a No bears di Jafar Panahi, ricevuto dai suoi attori, perché il regista iraniano è in prigione per aver protestato per l’arresto del collega Mahammad Rasoulf. Panahi era già stato condannato nel 2010 a sei anni di carcere e al divieto per 20 anni a dirigere film con l’accusa di fare propaganda contro il governo. Ma non lo hanno fermato: No bears è il quinto film di Panahi realizzato in condizioni di clandestin­ità e racconta una doppia storia d’amore, di cui lo stesso regista si trova in qualche modo a condiziona­re l’intreccio. Dall’isolamento di un paesino iraniano al confine della Turchia Panahi dirige da remoto un film su una coppia che tenta di espatriare di nascosto e contempora­neamente lui stesso si trova coinvolto in una faida di paese, dove superstizi­oni e ignoranza, figlie di decenni di repression­e, portano al sangue. No bears è un buon film, non il più innovativo di Panahi, rimanendo sui binari (certo obbligati) di Taxi Teheran (2015). Ma la 79 edizione della Mostra di Venezia ha ribadito che il cinema è anche impegno: dall’appoggio esplicito all’Ucraina con Zelensky collegato da remoto, ai film in concorso che davano largo risalto alla diversity, oltre che al flash mob a sostegno non solo di Panahi, ma di tutti i cineasti arrestati e censurati nel mondo.

Una zampata di verve è arrivata con il Leone d’argento per la regia a Luca Guadagnino, che sulla padronanza della macchina da presa non ha nulla da dimostrare. Bones and all, tratto da un romanzo di Camille DeAngelis, è una storia di marginalit­à estrema in cui il cannibalis­mo si rivela anche la più segreta e profonda delle intimità. Mangiare assieme per i due protagonis­ti (l’idolo dei teen Timothée Chalamet e Taylor Russell, forse un poco acerba e titubante, eppure a lei è andato il premio Mastroiann­i come talento emergente) è il gesto di condivisio­ne più forte nella solitudine della vita. Il cannibalis­mo non è cosa per tutti i palati, ma a Guadagnino piace veleggiare sulle soglie dell’horror (vedi Suspiria) e lo riesce a fare addirittur­a con tenerezza.

Ottima la coppa Volpi al meraviglio­so Colin Farrell, protagonis­ta di The Banshees of Inisherin di Martin McDonagh, il film più calibrato del festival in molte delle sue parti. Infatti ha vinto anche il premio per la migliore sceneggiat­ura (mica male anche la fotografia). Farrell è Pádraic Súilleabhá­in dolorante per la rottura con l’amico Colm Doherty (Brendan

Gleeson) che lo evita perché lo ritiene sciocco. L’isola di fantasia in Irlanda su cui vivono nel 1923, a pochi metri dalla guerra civile, è un laboratori­o per capire come nasce un conflitto per motivi insulsi, per isolamento, tra grandguign­ol e trama beckettian­a. McDonagh aveva firmato Tre manifesti a Ebbing, Missouri del 2017 con Frances McDormand e la sua mano ricorda certi registi che spiegavano il nonsense della polveriera balcanica.

Meno convincent­e la Coppa Volpi a Cate Blanchett, la direttrice d’orchestra, protagonis­ta di Tár di Todd Field, che mancava dalla scena da sedici anni, l’ultima pellicola era Little Children, 2006. Allora aveva diretto Kate Winslet, oggi Cate Blanchett, in ambiente LGBT con accuse di molestie sessuali. Ambizioso film con una bellissima prima parte in cui si spiega il valore dell’interpreta­zione. Diventa poi inverosimi­le di fronte alla discesa agli inferi. Cate vince facile, algida, sicura di sé, bravissima, sempre la prima della classe, ma non convince, come il film. Netflix, che aveva quattro film in concorso, non si è portata a casa niente, mentre gli altri italiani hanno peccato di un problema condiviso con tanti film del concorso: troppa carne al fuoco, il salto di narrazione da un personaggi­o all’altro, mentre molte sceneggiat­ure hanno calcato troppo la mano sommando tragedie su tragedie ( Beyond the wall, per esempio, la protagonis­ta soffre di epilessia, ha un bambino down, è vedova, senza stipendio da mesi e viene arrestata ingiustame­nte dalla polizia iraniana). Troppo e quasi niente sesso, con poco sentimento.

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COPPE VOLPI A CATE BLANCHETT E A COLIN FARRELL NESSUN PREMIO ATTRIBUITO A NETFLIX

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Laura Poitras con il Leone d’oro per il film «All the beauty and the bloodshed»
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Vittoriosa. Laura Poitras con il Leone d’oro per il film «All the beauty and the bloodshed» GETTYIMAGE­S
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