RACCONTO OSIP PARLANDO CON LUI
Le «Memorie» della moglie del poeta russo contengono la descrizione degli arresti, dell’esilio e della morte: la narrazione è impostata come un continuo dialogo con il marito
Le persecuzioni staliniane e l’orrore dei gulag sono documentati in un’ampia e alta produzione letteraria, da Šalamov a padre Florenskij. Perché allora queste memorie di Nadežda Mandel’štam (1899-1980), di cui Settecolori ha appena pubblicato il primo volume (Speranza contro speranza) e annuncia il secondo tra pochi mesi, sembrano così insostituibili, così ineluttabili? La loro specificità risiede non soltanto nella tragica vicenda raccontata (i due arresti, l’esilio, la morte del poeta Osip Mandel’štam, di Nadežda marito), ma nella forma che la vicenda acquisisce al genere letterario, né romanzo come in Solženicyn né autobiografia come in Evfrosinia Kersnovskaja. Con Nadežda il baricentro della narrazione risiede fuori di sé, nell’alterità di Osip che è riferimento costante di ogni pagina (di ogni frase, di ogni parola) e tuttavia mai personaggio in senso stretto. Del suo carattere, della sua psicologia, della sua affettività veniamo a sapere pochissimo perché nella scrittura di Nadežda il sentimento, ancor più che il sentimentalismo, è schivato. Osip è invece un punto di prospettiva dal quale guardare al mondo: nell’ossessività di questo straforo è la forza della prosa della Mandel’štam.
Nadežda e Osip si erano conosciuti nel 1919 in un nightclub di Kiev. Entrambi venivano da famiglie della borghesia ebraica, erano colti, poliglotti, intimi a ogni espressione artistica. Insieme vivono la breve gloria letteraria successiva ai debutti di Osip, insieme condividono la progressiva riduzione al silenzio del poeta, estraneo all’enfasi celebrativa del socialismo. Il processo che condurrà all’annichilimento si è innescato. Un violento epigramma di Osip contro Stalin, letto a pochi amici tra i quali una spia, porterà a un primo arresto nel 1934 e alla condanna al confino. I Mandel’štam vivranno in miseria girovagando per la tetra provincia sovietica, lui tenterà il suicidio più volte, lei busserà a cento porte implorando inutilmente la riabilitazione. Osip verrà infine arrestato di nuovo e tradotto al nulla dell’inverno siberiano, dove il 27 dicembre 1938 morirà di stenti, in un campo di transito per la Kolyma.
Dal giorno del primo arresto, la vita di Nadežda Mandel’štam conosce un solo obiettivo: salvare la produzione letteraria del marito, nascondere i manoscritti, distribuirli tra i pochissimi sodali, sottrarli all’incenerimento con l’imparare versi e prosa a memoria, esercitare quest’ultima quotidianamente perché non un frammento si dilavi, pronunciare le sillabe incamerandole nel casellario degli automatismi cerebrali. E tornare a bussare alle porte, soprattutto dopo la morte di Stalin. I testi di Osip cominceranno a circolare tra i gruppi del samizdat, usciranno dall’Unione Sovietica, verranno stampati in clandestinità fino a quando non si otterrà da Kruscëv una parziale riabilitazione del suo nome. Gli ultimi decenni della vita di Nadežda saranno infine dedicati alla stesura dei suoi ricordi, pubblicati in inglese nel 1970 e nel 1974.
Dalle memorie è estromesso tutto ciò che non riguardi Osip. È come se la vita di Nadežda non conosca infanzia e adolescenza: tutto comincia con Osip, anzi, con l’arresto di Osip. La Mandel’štam scrive interrogandosi continuamente sulla possibilità che le sue pagine vengano, un giorno, lette: la scrittura è una necessità quia absurdum ed è in questo paradosso che si solidifica l’inevitabilità dell’espressione. Lì risiede la grandezza di Speranza contro speranza quale esito di stile, oltreché in quanto testimonianza. Non soltanto il sentimentalismo vi latita: vi sono ripudiati la metafora, le connotazioni simboliche che reinterpretano la realtà, il rapporto tra le cose e il loro significare altro. La nitidissima cristallografia della Mandel’štam ha una spaventosa forza di incisione concretata in immagini indelebili: così la giacca che resta in mano a Nadežda quando Osip se ne sfila per gettarsi da una finestra; così l’uovo destinato per cena ad Anna Achmatova, che sosta imperturbabile sul piatto mentre intorno agenti e testimoni mettono a soqquadro la casa, il giorno dell’arresto di Mandel’štam. Quell’uovo (che alla fine Osip inghiotte) non «vuol dire» niente: è lì, nella sua stolida datità. È se stesso: un uovo acmeista, nulla più nulla meno. E così è tutto, in queste memorie: alla fenomenologia dell’orrore sarebbe inutile assegnare una dimensione euristica.
L’altra risorsa di queste pagine, forse la più straordinaria, è la testimonianza del processo poetico. Nadežda è la spettatrice, la complice, la sentinella di quello sviluppo misterioso per il quale lievita la creazione: il suo racconto si fonde con gli scritti teorici di Mandel’štam e li completa. La penna di Nadežda si fa sismografo, registra la primissima scaturigine musicale del verso, il ritmo, la cadenza, il timbro sillabico, poi l’insorgere dal ritmo del fonema, la sua matrice corporea (la poesia di Mandel’štam sgorga quasi sempre camminando: nasce dal passo e dal suono sul labbro), fino alla conquista dell’«appagamento semantico» (così Osip nella Conversazione su Dante) e al momento in cui «le onde-segnali del significato scompaiono» nell’accadere del fenomeno poetico. Qui, nello stupore mai stanco al cospetto di questo processo, la prosa di Nadežda Mandel’štam si stacca da se stessa ed è inondata da luce, meraviglia, libertà.
Quando si parla di lei, è quasi d’obbligo citare Brodskij e il suo racconto di una visita nel 1972: «L’ombra era così profonda che le sole cose che si potessero distinguere erano la tenue scintilla della sigaretta e quei due occhi penetranti. Il resto - lo sparuto corpo rattrappito sotto lo scialle, le mani, l’ovale della faccia cinerea, i capelli grigi, anch’essi cinerei - tutto il resto era inghiottito dal buio». Ma ancora più impressionante è il ritratto lasciatoci da Bruce Chatwin, che la visitò in un innevato pomeriggio del 1978 e la vide invece riassorbirsi nel vuoto moscovita e in un quadro (bianco su bianco) di Weissberg appeso alla parete della sua stanzetta. Quel biancore è lo stesso della scrittura di Nadežda Mandel’štam: rada, gelida, inflessibile, indimenticabile come un Adagio di Šostakovič.
L’AUTRICE è COMPLICE E SPETTATRICE E LE SUE PAGINE SI FONDONO CON GLI SCRITTI TEORICI DELL’UOMO CHE AMA, FINO A COMPLETARLI
Speranza contro speranza. Memorie I
Nadežda Mandel’štam Settecolori, pagg. 656, € 28